venerdì 10 ottobre 2014

                                                La verità più  vicina 

Un posto assurdo, ecco cos’era. Ipotizzai che qualcuno avesse pensato a uno scherzo di cattivo gusto e scelto me, non so perché, come soggetto perfetto per ridere. Non sapevo niente, le mie erano solo ipotesi. C’ero solo io in una grande piazza deserta, neanche una maschera per nascondermi o  una schifosissima arma per difendermi. Quel sadico aveva scelto un luogo surreale e uno scenario da zombie, eppure io ero vivo senza nessuna lacerazione della pelle o cranio cadaverico. Pensando forse che un pubblico avrebbe gradito gli ampi spazi della piazza deserta, entusiasta della visuale nitida sulla vittima. Una messinscena perfetta con un uomo indifeso, solo davanti al suo carnefice. Solo un piacere sadico e cinico avrebbe potuto giustificare tutto questo,  ma in quel momento non trovavo ragioni valide. Ero troppo spaventato, dimenticato dal mondo come una statua in un quadro di De Chirico. Un abbandono disumano.

    
La piazza era spoglia, e io sembravo ancora più spaesato nel vuoto, un uccello pietrificato con lo sguardo smarrito a inseguire lo stormo numeroso e chiassoso migrato altrove. Senza potermi muovere. Un uomo enorme, un aguzzino muscoloso di quasi due metri, il torso nudo e la testa rasata e corrucciata da grosse pieghe della pelle, sudata e rossa, mi si parò davanti. Aveva un ghigno feroce sul viso. Io lo guardai restando di sasso, inorridito. Ero un naufrago senza barriere coralline a proteggere le mie bracciate nell’acqua trasparente, dovevo cavarmela da solo in una situazione disperata in mezzo ai pescecani, come nell’incubo della notte appena trascorsa eroicamente. Un ignoto spettatore da fuori avrebbe sorriso della mia impotenza, convinto fosse solo una finzione, un film di quelli belli macabri ma chiaramente irreali, con una vittima troppo sfortunata, poveruomo che risolveva la sua esistenza in modo improbabile e anomalo. 
  
Avevo sempre odiato la folla, ma ora avrei dato tutto per trovarmici dentro. Sono solo come mai lo sono stato, fu il mio incoraggiamento, però può darsi non sia terrore il mio e se mi calmo passa tutto. È solo sorpresa e frustrazione perché non posso prevedere cosa succederà. Cosa vuole da me questo mostro? Perché sono stato scelto io come vittima della sua brutalità? Una cosa assurda, nessun cazzo di spiegazione. Potrei fare quello che ragiona e fa un’analisi fredda calcolando le variabili in gioco, quello che pensa di cavarsela colla sola forza del pensiero. Ma la morsa che mi stringeva i fianchi mi disse che non potevo, fui sollevato da terra come un ragazzino di cinquanta chili o quasi. 

Un senso di leggerezza mi pervase tutto il corpo, doloroso ma sorprendente per i miei ottanta chili. Pensai- lo ricordo bene- a una scossa di terremoto molto forte ma non letale. Il dolore più acuto mi trafisse come una fiocina da Moby Dick in un luogo indefinito, eppure io lo collocai in un punto preciso nella mente, avrei potuto disegnarlo come un ceppo rosseggiante dentro al braciere del camino spento. La mente era una distesa di cenere, e il dolore sembrava bruciare estraneo alla fine delle speranze di sopravvivenza. 

Il pubblico applaudiva oltre la soglia dell’indicibile, lo sentii distintamente come fossi al cinema. Ma dove diamine si nascondeva? Non vedevo proprio nessuno. Ero cieco e stupido, solo nel chiedermi perché tanto dolore. Perché proprio io? O il mio dolore (che definirei sublime) era solo lo sviluppo finale di un incubo notturno che pensavo già finito?

Eppure è tutto vero, gridai sopra le lenzuola, il mostro mi sta sbattendo per terra!                   

                                                                                                                                                                                 

mercoledì 7 maggio 2014

Leggendo questo libro mi ponevo domande, come sempre con Bolano, su dove volesse arrivare... perché a un certo punto il gioco del terzo Reich deve essere la metafora di qualcosa. La presenza di Else e del suo marito malato non è casuale nel gioco delle parti: rischio, pericolo, coraggio, incoscienza, consapevolezza devono avere sopra di sé un principio unico ispiratore. Un fine umano. E questa insistenza sul Bruciato, sulla sua forza bruta e misteriosa, quasi un simbolo vivente della Storia con i suoi misfatti... 
Ora, a distanza di mesi, a libro chiuso, sento ancora la suggestione di questo racconto e capisco che le sue onde anomale sono difficilmente classificabili e interpretabili: troppo c'è dentro, troppa la fusione tra normalità e anormalità, ordine e caos, così che non si può accedere al segreto della scrittura di Bolano  nel Terzo Reich. La vita in essa presente mantiene una zona oscura, inquietante. Forse questa suggestione con cui la vita si esprime sulla pagina è l'unica spiegazione. Essa detta le priorità senza mai chiarirsi. Non vuole esprimere una logica apparente. La vita preferisce essere prepotente come nella realtà di ciascuno di noi.
Tempo fuor di sesto, Philip Dick, Editore Fanucci 2012

«Time is out of joint», dice Amleto dopo l’incontro col fantasma del padre a Elsinore. Time out of joint (Tempo fuor di sesto) chiama Philip Dick un suo romanzo del 1959. Il protagonista, Ragle Gumm, è famoso nella sua Old Town: infallibile nel gioco a premi di un quotidiano locale, azzecca sempre la risposta giusta. Ma qualcosa non va. Il nipotino Sammy gli mostra una vecchia rivista con Marylin Monroe. Ragle è incredulo: come gli è sfuggita finora tanta bellezza? Sente che il tempo gli nasconde qualcosa. Chi e perché ha confuso il presente? Nell’elenco telefonico mezzo strappato, trovato tra i rifiuti insieme alla rivista, i numeri che prova a chiamare non esistono: com’è possibile? Ha  quarantasei anni Ragle, ma nell’anima è coetaneo di Sammy, figlio di Margo, sua sorella, e Vic. «Stanno cercando di imbrogliarci», afferma il piccolo di dieci anni.  «È il nemico che è tutto intorno a noi». Ragle è un un bambino cresciuto nelle vesti di adulto, come il Jack delle Confessioni di un artista di merda, opera precedente di Dick.  Marylin è «la risposta al nostro bisogno di una madre», dice. «Aveva un sorriso stupendamente dolce, ingenuo ma intimo.» E Vic a Margo: «Ehi, tesoro … Bill Black (uno strano vicino che li viene sempre a trovare e di cui Ragle seduce la moglie) ne ha sentito parlare». Ragle commenta: «ci sembrava che ci fosse qualcosa che non quadrava».
Marylin Monroe è stata rimossa dal presente da qualcuno. Ragle sospetta che anche le sue vincite non siano innocenti, ma elementi di un unico progetto ignoto. La sua fantasia apre la strada a grandi verità nelle piccole cose e il gioco infantile scopre cosa si nasconde nel gioco adulto. Quando Sammy dice: «Ci stanno puntando in testa le loro pistole imbroglianti», Gumm lo apprezza invece che deriderlo: «È decisamente più avanti di noi». Sfoglia l’elenco telefonico misterioso e  si scontra con l’imbroglio temporale: quei numeri non esistono più. La stessa identità di Gumm è falsa. Il suo numero in elenco è l’unico che non chiama … come spiega Bill Black, «nessuno pensa mai di andare a vedere il proprio numero». Ragle vaga nel buio: per motivi nascosti il tempo è stato rimosso dalla memoria. Una forza penetrata in lui dall’esterno lo manipola come vincitore del gioco. Che gioco non è. Quando la radio a galena del piccolo Sammy capta la conversazione tra misteriosi militari che sembrano minacciarlo, Ragle capisce: deve lasciare la casa della sorella e iniziare il viaggio verso la verità, crescere in fretta, uscendo dall’adolescenza in cui vive e scoprire il mondo adulto. Dick cita Freud, perché qui paranoia ed egocentrismo hanno un senso di realtà possibile e la trama segreta lascia tracce inconsce. L’innocenza del bambino è rivelatrice. Tempo, spazio e persone sono ridefinite da voci mai ascoltate prima. La radio artigianale del bimbo dice che non v’è innocenza nel mondo, ma minacce e nemici con le loro pistole imbroglianti.  Voci confuse dalla radio danno corpo alla realtà nascosta: Ragle Gumm deve giocare e vincere, è l’elemento risolutore involontario, un intruso necessario in una guerra di cui non sa niente. Lo spirito del gioco diventa rumore di wargame. 
La narrazione incalza e inquieta: «la cosa in sé», quella che confonde il tempo, si nasconde tra parole sempre meno incomprensibili. Emerge dalle parole un insieme di immagini inquietanti, voci del silenzio traditore sono svelate dai rumori intercettati. Negli occhi di Ragle confini fisici e psichici saltano, superati dall’ordine logico di tempi e luoghi alieni. Fatti ordinari, resi straordinari dalla mobilità di tutte le certezze, varcano il limite del loro significato: l’alternativa possibile è sovrapposta dalla parola al reale effettivo, la sua «cosità» prevale  su quella delle cose. Nelle parole, l’ordine delle cose certifica il caos ed è il caos che dà ordine alla realtà. Le parole riflettono il caos nascosto dalle apparenze. La nuova identità di Ragle è la spia del tempo fuor di sesto. Ritmo della storia e intreccio dei dialoghi disegnano caratteri nuovi dei personaggi in mezzo a cui Ragle deve scegliere tra chi vorrebbe un «solo mondo felice», un’egemonia che non lascia scelta, e un gruppo «lunatico» che vuole distruggerlo. Quello lunatico «ha ragione»: l’innocenza del mondo è stata violata. Fuggendo da un bar, luogo anch’esso dell’inganno, Gumm riflette: «Troppo rumore. Troppo pieno di gente. Sarà l’ultimo stadio del mio problema mentale. Sospettare della gente … dei gruppi e dell’attività umana, colori, vita, rumore. Perversamente.». Vuole distruggere tutto Ragle. «Cercando rifugio nelle tenebre». La «Dinge an sich» di Kant, la «cosa in sé», è l’alternativa giusta al presente e al suo inganno, anche se distrugge. 
    Nella presentazione al libro Terzo Reich di Roberto Bolano, leggo che gioco e trame nascoste si rifanno a questo Dick. Troverò anche in Bolano un’innocenza violata dietro uno wargame? Una cosa in sé sotto le parole?  Ho questo sospetto. Forse perché seguo ancora le tracce lasciate da Dick.

Vincenzo 

lunedì 5 maggio 2014

Raduno nazionale di scrittori e laboratorio artistico di idee 

PREMIO LETTERARIO NAZIONALE
CONTEMPORANEA D’AUTORE

CONTEMPORANEA: TRA MEMORIA E FUTURO … IL NOSTRO TEMPO
“Creare è resistere, resistere è creare”
(in memoria di Stéphane Hessel – 1917/2013)
Una reazione culturale alla crisi. Invertiamo la tendenza!

ATTESTATO DI RICONOSCIMENTO
COME FINALISTA CATEGORIA SAGGISTICA

Con la presente si attesta che il libro “Sancio, io e l’isola di Nessuno” (Pungitopo Edizioni) di Vincenzo Bonicelli della Vite (Bologna) ha partecipato all’edizione 2012/2013 del Premio Letterario Nazionale Contemporanea d’Autore nella categoria saggistica e ha conseguito il Premio come finalista ex aequo, essendosi classificato nella terna finalista scelta dalla giuria organizzativa, con la seguente motivazione: “Interessante e ben strutturato, studiato, un’analisi e un omaggio alla letteratura e ad alcuni dei suoi capolavori del passato come strumento creativo di comprensione della realtà che ci circonda”
                                                                                      

                                                                                        
La Direzione del Premio     

domenica 27 aprile 2014

La verità più vicina

La verità più  vicina  
           
Trovarsi lì era strano. Ipotizzai che qualcuno avesse pensato a uno scherzo di cattivo gusto  senza avere nessun soggetto credibile a disposizione, escludendo a priori la possibilità di un volontario. C’ero solo io, in quella grande piazza deserta, senza maschera e disarmato.

Chiunque avesse ideato il luogo e lo scenario, poteva realizzare tramite me il sogno che qualsiasi pubblico avrebbe gradito. Chi più di me adatto alla messinscena? Solo in un momento successivo riflettei che non c’era stata né miseria né compassione da suscitare in qualche sguardo commosso, solo piacere sadico e cinico. Mi venne in mente un quadro di De Chirico. La piazza era deserta, e io in mezzo a quel vuoto sembravo perfettamente spaesato, come un uccello pietrificato che aveva perso l’orientamento del volo mentre lo stormo numeroso e chiassoso era migrato altrove. Non potevo muovermi. Un uomo enorme, un aguzzino muscoloso di quasi due metri, il torso nudo e la testa rasata e corrucciata da grosse pieghe della pelle, sudata e rossa, comparve davanti a me ghignando con ferocia. Io lo guardai restando di sasso, inorridito e incapace di un benché minimo movimento. Chi mi osservava da fuori poteva finalmente sfogare su un altro umano come lui,  un essere destinato a subire ogni giorno, la sua insofferenza per la vita costretta in buchi rumorosi,  pensai, annullare in quell’ampio spazio le  presenze pressanti di ogni giorno. Si ritaglia la sua isola felice di spettatore. Eppure non vidi nessuno al di fuori del mostro e me.
Però può darsi che non sia terrore il mio stato d’animo, pensai per un attimo, che sia solo  sorpresa e frustrazione nell’impotenza di prevedere cosa succederà. Cosa vuole da me l’energumeno? Perché io e solo io sono qui come unica vittima della sua brutalità?
Le cose non hanno sempre una spiegazione razionale e questa era una di quelle volte. Impossibile esercitarsi nell’analisi e nel calcolo delle variabili in gioco. Non ne ebbi comunque il tempo. La sua morsa mi strinse i fianchi, mi sentii sollevare da terra come un ragazzino di cinquanta chili o poco più. Ne pesavo ottanta allora e un dolore diffuso misto a senso di leggerezza mi pervase tutto il corpo, pensai- lo ricordo bene- a una scarica di elettricità molto forte per fortuna non letale. La sua punta più acuta mi trafisse in un luogo indefinito che io collocai in un punto preciso della mente, il corpo divenuto insensibile. La mente ancora qui e il corpo assente altrove. Il pubblico applaudiva, lo sentii distintamente. Continuai a non vedere nessuno e a non capire perché proprio io. Possibile che fosse una cosa così personale da essere improbabile nella realtà e che un dolore (che definirei sublime) fosse solo il frutto della mia mente turbata da un incubo notturno?

Qualcosa mi dice il contrario, è tutto vero!, mi sorpresi a dire a me stesso.                 

                                                                                                                                                                                 

venerdì 25 aprile 2014

                                    Il cuore del pennello 


Stranamente nel cuore di Bologna. Anche se non fa  parte  del vero e proprio Centro Storico, Via San Petronio Vecchio ha il suo sbocco su Via Guerrazzi, dove il collegarsi di Strada Maggiore con Santo Stefano la proietta nella vita pulsante della città con una certa discrezione. Appartata e dimessa, almeno per chi l’osserva non troppo attentamente scorrendo di passaggio, non sembra curarsi della promiscuità spudorata e baldanzosa delle sue più illustri compagne. Lascia loro la pulsante vitalità cittadina e tiene per sé il fascino dell’antico quartiere popolare, una modestia rinnovata di portici, palazzine e soprattutto marciapiedi, logori per passaggi ripetuti all’infinito nel passato e ancora nel presente, lacerati da interruzioni e sbalzi del terreno.
Almeno così erano all’inizio degli anni ’80, quando ricordo non mancavano sbrecciature dei muri, sporcizia di angoli e androni impossibili da evitare. Io vi passavo come dentro a un’abitazione in cui le stanze erano troppe per poter essere ripulite, e mi andava ben così, non avrei voluto le impronte del tempo cancellate a favore di un’asettica indifferenza ospedaliera. La bottega di Paolo era proprio qui dove passavo dirigendomi verso Via Guerrazzi, prima di imboccare Santo Stefano verso il Centro, oppure Piazza Aldrovandi verso l’Università in Via Zamboni.

Arrivando da Via del Piombo, il marciapiede  risaliva appena verso l’incrocio con Via Remorsella e subito prima della bottega, e ogni volta mi sorprendevo della sopraelevazione brusca e stretta che immaginavo trasferita qui da una cittadina collinare. Un passaggio a senso unico, come se una volontà estranea l’avesse materializzata per impedire alle biciclette di scorrere sotto il portico infastidendo i pedoni, anche se dubito sia mai riuscita nell’intento. Di fatto bisognava stare sempre attenti a scansare qualche ciclista, un dispetto o una scelta di chi preferisce il riparo scorrevole del portico all’asfalto ruvido aperto di sotto, mi dicevo. Quel giorno notai che il locale sulla mia sinistra, vuoto ormai da alcuni giorni, era stato imbiancato e qualcuno dentro stava allestendolo, avendo posizionato quadri e litografie vicino alle pareti per poterli poi appendere. Diedi un’occhiata più curiosa e meno affrettata, fermandomi davanti alla vetrina esterna quasi sfacciatamente, sentendomi giustificato a farlo dal mio interesse verso l’arte e i quadri. L’uomo sembrò accorgersene, per una strana sensibilità sul suo dorso. Animale sensibile.  Si voltò di scatto con un gran sorriso sicuramente rivolto a me, unico passante fermo lì davanti. L’occhiale spesso deve nascondere un udito molto acuto, ricordo che pensai. Mi rivolse la parola con fare cordiale e mellifluo, strana commistione che sfociò in un Prego… farfugliato, un invito ad  entrare al quale non potei sottrarmi.

“Veda, sto finendo di allestire … mi chiamo Paolo e lei?”

Mi aveva dato cortesemente del Lei, a me parecchio più giovane di lui, cortese nei suoi sessanta anni o qualcosa di più, io nei miei trenta appena iniziati. Allora ero ancora affascinato dalle avventure e dal nuovo in un modo che definirei morboso, mi apparteneva di diritto l’idea che nel presente tutto è possibile, quindi potevo lasciare ad altri passato e futuro,  i loro luoghi comuni del destino segnato nel tempo, per vivere un presente pieno. Vincenzo, mi chiamo Vincenzo. E sono disoccupato … (questo non avrei dovuto dirlo, non so perché sentii il bisogno di farlo, forse voglio scusarmi d’essere tanto più giovane di lui, pensai). Mi son fermato attratto dalla novità … questa è una nuova bottega d’arte, giusto? Lei è un pittore?
Sì, certo, disse lui.
Ci fermammo a parlare per un po’, venne sera in fretta. Abbandonai l’idea d’avviarmi a piedi verso le Due Torri per fare un giro per i negozi e vedere un po’ di gente. Sentivo un’atmosfera particolare aleggiare nel vano di quella bottega appena nata,  come la sensazione di un’energia e d’un mistero umano che insieme inquietavano e attraevano. Morbosi.

Tornai a casa chiedendomi che cosa ci fosse d’inafferrabile in quell’uomo appena conosciuto, se fosse l’artista o la presenza fisica di Paolo ad avermi trasferito un’emozione nuova di prospettiva diversa rispetto a cose e uomini. Certo, non conoscendo la persona e il suo passato, non avevo neanche indizi che mi permettessero di fare ipotesi al riguardo, di analizzare in via del tutto teorica le possibili conseguenze sul presente lasciate dalle tracce  del suo vissuto. Fu solo qualche giorno dopo, in una qualche visita successiva, che conobbi il suo cognome: Casaroli. Il famoso bandito degli anni Cinquanta! Ecco chi era la persona con cui avevo iniziato un dialogo sull’arte e la psicanalisi di Jung, era il famigerato capo della banda Casaroli, quello che aveva compiuto rapine alle banche causando feriti e morti per le strade di Bologna. Mi venne in mente quando in Via Santo Stefano, parecchi anni  prima, avevo visto Renato Salvatori girare il film sulla banda, simulando le sparatorie. Impressionato e incuriosito dal fatto che il film si girasse a quattro passi da casa mia, mi ero informato e avevo scoperto che a Bologna proprio nell’anno della mia nascita, il Cinquanta, c’erano state sparatorie per la strada, morti e feriti per terra.
Lui, l’ex bandito, aveva aspettato a dirmelo che fossimo entrati più in confidenza e questo aspetto dell’improvvisa rivelazione d’un passato losco e oscuro mi turbò ancor più. Osservavo l’anziano ometto del presente, artista e intellettuale, sorridente ed entusiasta per la possibilità di vivere la vita rimastagli dopo ventotto anni di prigione, facendo quello che a lui piaceva e in libertà, e lo paragonavo all’immagine cinica e spietata, forsennata e folle, d’un giovane che aveva rapinato e sparato, persino ucciso. Era rimasto nella memoria collettiva dei cittadini di Bologna per la sua malvagia e ferocia. Come poteva essere lo stesso soggetto, come può un individuo essere distruttivo e violento fino agli estremi, e poi riuscire  a cancellare quella parte di sé e inventarsi un presente creativo e pacifico dentro alla sublimazione dell’arte? Un uomo vivace e sorridente, piccolo, poco sopra l’uno e sessanta, lo sguardo ispirato e appassionato, gli occhiali spessi portati con disinvoltura, il sorriso pronto e la parola veloce, mai monotona, la voglia di comunicare e spiegare e l’eloquio consapevole e un po’ sprezzante di ignoranza e mediocrità intellettuale: quell’artista che si agitava davanti a me e mi spiegava che la Storia non è lotta tra il Bene e il Male, tra il Materialismo e l’Idealismo, tra la Religione e l’Ateismo o l’Eretismo, no, è la dialettica impossibile tra l’Introverso e l’Estroverso, Jung aveva capito tutto nei suoi tipi psicologici, bisognava estendere questa comprensione al Mondo e alla Storia, lo diceva la sua stessa vita vissuta fuori e dentro la prigione, quel Paolo Casaroli che io stavo conoscendo non poteva essere il terribile bandito da cui sarei dovuto fuggire inorridito! Impossibile. Feci finta di niente per un po’.
Non potevo certo accusare del suo passato quell’uomo appena conosciuto, il presente con la sua miseria e ricchezza era allora la mia religione, il passato contava meno anche se non poteva dirsi passato del tutto, e la discrezione m’imponeva il rispetto della sua sfera più intima e certamente sofferta, se non altro per la condanna all'ergastolo e una lunga estromissione dalla vita civile di uomo libero, come m’immaginavo pensando a tutto questo. Non poteva certo essere stata una vita felice. Cercavo d’indovinare, senza riuscirci, motivi e situazioni del suo delinquere. Il film con Renato Salvatori l’avevo visto troppi anni prima e ora rimaneva solo il presente della bottega di Via San Petronio Vecchio, con le litografie e i quadri tutti con la stessa impronta visiva. Gesù crocifissi e figure sofferenti ma danzanti, corpi allungati separati internamente in compartimenti geometrici. Braccia e gambe sembravano ali, snodi di percorsi mentali svolazzanti, le ginocchia erano sempre piegate, volevano dimezzare le gambe in modo netto e preciso, separare i muscoli in uno sforzo innaturale; le teste ripiegate su se stesse avevano un modo doloroso, eppure conscio di energia salvifica. Forse non gli era possibile fare altro in carcere, solo rappresentarsi così con un significato dentro al mondo e alla storia. Da lì era nata la sua concezione di Introverso ed Estroverso, il corpo prigioniero un ostacolo illuminante nella mente, la lotta di dolore e azione negli arti umani divenuta reale nell’ambivalenza della psiche, introversi contro estroversi. Jung era nient’altro che un atto di conoscenza egocentrica, la sua storia personale divenuta corso della Storia, lo scontro tra Bene e Male ridotto a prevalere dell’inerzia o del movimento. Quest’ultimo a vantare il valore che gli competeva, principio della Storia dell’uomo da sempre, nei secoli.
Per un sessantenne, ma forse ancor più per un trentenne, l’azione è una verità da vivere  senza contraddizioni, verità del tempo che fugge, quel chi vuol essere lieto sia di diman non v’è certezza. La morte è l’unica certezza, aggiungevo dentro di me, inerzia assoluta ed eterna. Casaroli si muoveva  senza l’idea della colpa, il passato lo ricordava come una prigione da cui lui era uscito, un dopoguerra che uccideva la dignità di tutti nella miseria e nell’accettazione passiva. Ma lui no, lui aveva reagito, era uscito da quella prigione senza sbarre per conoscere quella vera, quella degli uomini condannati all’ergastolo. Aveva pagato per il suo orgoglio. Il tempo, si sa, riesce a coprire anche i peccati, li sa ridurre a finzioni estemporanee coprendoli col pudore, li affida al presente perché li superi con la libertà di nuovi orizzonti. Anche col pennello o con la penna, come nel suo e nel mio caso. Io ero giovane e la mia fantasia correva veloce reinterpretando il passato, i morti erano cancellati dai vivi che incrociavo sulla mia strada, alla televisione e al cinema, realtà instabili per cui il bandito dimenticato era sostituito da nuovi protagonisti lontani da lui e da me. Io e lui eravamo a tratti attori sconosciuti di un film in bianco e nero dei primi anni ’50, un film non più presente neanche nelle sale d’essai come il Rialto o il cinema Roma lì vicino in via Fondazza, impresentabili perché la morte contava ogni giorno nuovi corpi e quelli vecchi scomparivano nel nulla. La vita li aveva resi invisibili, troppo niente e troppo vuoto da immaginare. Paolo Casaroli aveva fatto il suo tempo.
Intuivo che  in lui veniva ancora negata la colpa, forse esistita solo per un attimo d’immobilità prigioniera, prima che il movimento ne  disperdesse le tracce negli spazi impossibili del carcere. La vita lì dentro era continuata e aveva aggiunto sentimenti nuovi ai vecchi, purificando il presente dalle contaminazioni del passato. La banda Casaroli era una creatura estinta da tanto tempo, un mostro senza testa ignorata da Jung, sepolta tra le miserie e le violenze del dopoguerra. Rimanevano dolore fisico e consapevolezza superiore, raffiche di parole, proiettili a salve sul mondo conoscibile che non potevano impaurire nessuno. Il film con le riprese di Via Santo Stefano forse interessava ancora qualche giornalista impegnato con fantasmi invisibili ma le morti di oggi, le uccisioni delle Brigate Rosse o i delitti politici in tutto il mondo avevano spostato altrove l’attenzione, le armi usate dal Casaroli incolpevoli in mancanza delle vittime cancellate insieme al ricordo. Ora lui impugnava un pennello o anche un pennino alle volte, i capelli grigi un po’ lunghi e la pancetta che spuntava sotto la camicia, un’ombra irreale troppo lontana dal giovane Renato Salvatori del film, attore bello, feroce e agile. Libero. Guardando la litografia del Cristo in croce che Paolo mi aveva regalato, potevo solo scorgere i segni di un’arte strana e sofferta, quasi uno slittamento del tempo che aveva fatto diventare Gesù un  acrobata sublime, i chiodi a sospenderlo nel vuoto come un circense in bilico sul baratro. Inerzia e movimento come ossessione, come allora, come sempre nella sua storia e nella mia. Ma ora nessun poliziotto o  vigile a inseguirlo per strada, per quello che riguardava lui, pensavo, solo le sue ossessioni. E le mie. Rompere l’inerzia,  l’ossessione di chi non può far finta di niente.  Il presente di quel disegno e di tutti gli altri visti, tutti con la medesima impronta di crocifissione senza colpa e tanto dolore, mi affascinava per i corpi e le menti che l’agitavano dentro. Nei corpi dei quadri potevo trovare l’uomo vivo, un Paolo Casaroli vero, dolore e delirio  senza la faccia insolente di Renato Salvatori.


Vedi Vincenzo, è una visione nuova, decisiva, che nessuno ha ancora capito a pieno! La storia dell’Uomo è tutta lì, nella battaglia continua, interminabile, tra introverso ed estroverso … tutto è qui, questa teoria spiega tutto! Ecco, dobbiamo fare qualcosa insieme, buttare giù l’idea su carta … tu che sei bravo a scrivere. Me lo ripeteva ogni volta che ero davanti a lui. Io ci pensavo sopra. Eh, non è facile, Paolo, da dove inizio? Come faccio a spiegarlo? Con i  tipi psicologici? E la società e i suoi fattori?   Sembrava che non mi ascoltasse, però. Sì, è una cosa grandiosa, diceva, vedrai  una volta entrati tutto diventa chiaro, tutto si spiega  naturalmente! Quando inizi  tutto diventa facile, tutto si spiega.
Non ero convinto. Non glielo dissi mai. Andammo avanti mesi a parlare di questo, sviscerando o forse girando sempre intorno allo stesso concetto, adesso non saprei più dire. Allora sembrava necessario approfondire. La vita in carcere per tanti anni l’aveva potuto sopportare solo credendo in questo, formulando una visione unica e vorace dell’Uomo e della Storia. Aveva letto e studiato per aggiungere elementi alla sua cosmogonia storica, un disegno lineare e mobile in cui le forze dell’universo s’erano compiutamente espresse e materializzate nei due tipi psicologici, il loro movimento unica ragione per tutto il resto.

Poi, improvvisamente, qualcosa cambiò: trovai un lavoro, non c’era più né tempo né energie da dedicare a queste discussioni e al suo progetto. Via San Petronio Vecchio, seppure a poche centinaia di metri da casa mia, sembrò troppo lontana e faticosa da raggiungere. Rimase in me, e credo anche in lui, l’ossessione dell’uomo e delle sue motivazioni, nell’agire e nel pensare: la necessità di capire dove s’incontrano le cose che vanno e quelle che non vanno, nel genere umano, soprattutto queste. Alcuni anni dopo, quando appresi dai giornali e dalla televisione che era morto, incasellai quella perdita nelle altre che già avevano segnato il mutare violento di affetti e certezze nella mia vita quotidiana. Aumentò il senso di solitudine e quello di un destino lontano, la percezione di uno spazio- tempo troppo vasto per essere compreso. Del resto, finché Paolo era stato vivo, non avevo neanche capito com’era diventato un bandito e cosa aveva provato ammazzando: forse niente, forse solo l’impulso a sopravvivere anche a costo di uccidere.  Forse il momento in cui aveva premuto il grilletto non era stato diverso da quello in cui aveva impugnato il pennello, tanti anni dopo: mosso dall’istinto di trasformare la sua vita con un atto estremo e sublime, incurante delle conseguenze per se stesso e per gli altri. Per liberare il significato del movimento. Via San Petronio Vecchio e Via Santo Stefano conservavano la verità,  testimoni  muti di allora come solo le pietre sanno esserlo. Mentre le percorrevo, persone, vestiti, auto, bus e motorini segnalavano altre presenze, altri corpi, passi e voci. Nessuna geometria della sofferenza, non più.
La guerra con la sua miseria umana era sparita, l’Italia da tempo uscita dal dopoguerra.La ferocia del silenzio che mi aveva colpito all'annuncio della sua scomparsa,  però conservava la traccia di incubi passati. Eppure io non avevo conosciuto la guerra, quella raccontata da mio padre e tanti altri come lui. 

Non ero stato né vittima né artefice di un tempo assassino. Non avevo sparato, e ora mi chiedevo: potrei impugnare un’arma senza nessun cuore dentro la mia mano assassina?


La vetrina buia della bottega chiusa mi rispondeva col suo silenzio, segnalando al mondo di passaggio qui che un altro corpo era stato ingoiato nel  nulla. Un avviso listato a lutto in bianco e nero. Via San Petronio aveva un modo suo di stare nel cuore di Bologna, pensai. Non piangeva inutilmente, la perdita la conosceva da sempre, nella sua geometria antica e irregolare di muri e marciapiedi. Un caos di linee assimilato all'ordine, verità biologica della fine per ogni inizio di vita. Una sola morte non la turbava, era un colpo di pennello su un muro, uno sfregio da cancellare con un altro colpo di mano a ristabilire l’ordine del presente. Il pennello ha un cuore, è una mano senza pistola, non sono la stessa cosa. Potevo cancellare e ricominciare, allora.
Intorno a me, nel rumore solito della vecchia via e nelle espressioni dei volti nuovi, l’angoscia del nulla cedeva il posto alla curiosità. Mi parlava sottovoce, sorniona, di altre possibilità di  vita ancora da scoprire.
                                   


giovedì 24 aprile 2014


Roberto Bolano: le vite replicate e la suggestione della libertà 
 
 “Pochi mesi dopo il suo arrivo al villaggio morì il padre, come se avesse aspettato solo lui per lanciarsi a testa bassa all’altro mondo. (….) Anski sgattaiolò al cimitero  e rimase a lungo accanto alla tomba, pensando a cose vaghe. Di giorno dormiva in soffitta, coperto fino alla testa, nel buio totale (…. ) Si domanda cosa resterà quando l’universo sarà morto e il tempo e lo spazio saranno morti con lui. Zero, nulla. Questa idea, però, lo fa ridere. Dietro ogni risposta si nasconde una domanda, ricorda Anski che dicono i contadini di Kostekino. Dietro ogni risposta inappellabile si nasconde una domanda ancor più complessa. La complessità, tuttavia, lo fa ridere, e a volte sua madre lo sente ridere in soffitta come quando aveva dieci anni. Anski pensa a universi paralleli. In quei giorni Hitler invade la Polonia e inizia la seconda guerra mondiale. Caduta di Varsavia, caduta di Parigi, attacco all’Unione Sovietica. Solo nel disordine siamo concepibili.” *1. Queste parole di 2666, opera sterminata di Roberto Bolano,   trascendono Anski, sono il motore di 2666 e della sua narrativa. Un caos primordiale segna l’uomo e il suo destino e l’autore sposta continuamente i confini alla parola narrativa, ne allarga spazi logici e cronologici dandole nuove prospettive. Con il caos che si sposta, gli scenari dentro 2666 mutano eppure rimangono continui. Dice  Bolano che solo nel disordine siamo concepibili: contenuto e forma del suo narrare, specificità letteraria. Nella sua varietà, insensata prima e consistente poi, la realtà trova nelle parole una sintesi continua, interminabile, soggetta all’instabilità. I personaggi, espressioni viventi del disordine, sono percorsi da un delirio lucido e consapevole. Ci portano lontano, verso territori della mente che sappiamo essere dentro di noi, seppure inventati da Bolano. Anche noi dentro universi paralleli, come Anski ridiamo in soffitta. Complessa e semplice, Santa Teresa è una presenza senza veri confini: luogo privilegiato di 2666, s’estende in spazi reali e immaginari della parola dentro a un sistema di vasi comunicanti, da 2666 ai Dispiaceri del vero poliziotto, opera riassuntiva della volontà dello scrittore. Non solo zona geografica, si spiega come luogo mentale del tempo in cui non vi sono più limiti alla libertà e alla sua durata. Tempo dell’essere. “I suoi passi lo portarono in centro … e poi s’infilò in un quartiere che, malgrado fosse a due isolati dal centro,  riuniva in sé- e mostrava- ogni stigma, ogni segno di povertà, squallore e pericolo. La zona rossa. Quel nome divertiva Amalfitano con un misto di amara tenerezza; anche lui, nel corso della sua vita, aveva conosciuto zone rosse. I quartieri operai, i ‘cordoni industriali’, prima, i luoghi liberati dalla guerriglia, dopo.” *2.
Il presente ha la libertà come unica alternativa a se stessa, la sua durata è pervasiva e tutto può accadere, violenza e crudeltà, eventi contrari al sentire umano e all’intendere civile. Ma è libertà di incontri anomali e manifestazioni impensabili di poesia, scontro di eventi e personaggi  coi canoni della civiltà e del suo progredire. Il caos invade l’ordine. La morte del padre procede nel buio con la sua volontà perfida, imprevedibile nel provocare Anski dopo il suo arrivo al villaggio. Il caos subentra all’ordine a dispetto di aspettative ordinate nel tempo.
109 donne sono assassinate a Santa Teresa,  e le centinaia di pagine di La parte dei delitti danno un senso narrativo alle cronache insistite delle atrocità sostituendo la brutalità all’amore, i dettagli della deturpazione a quelli dell’integrità. “ Alla fine di settembre fu ritrovato il corpo di una bambina di tredici anni, sul versante orientale del colle Estrella. (…..) Era stata violentata ripetute volte  e accoltellata e la morte era attribuibile alla rottura dell’osso ioide. Ma quello che più sorprese i giornalisti era che nessuno reclamasse o riconoscesse  il cadavere. Come se la bambina fosse arrivata a Santa Teresa da sola e vi avesse vissuto in totale invisibilità finché gli assassini non l’avevano notata e uccisa. “ *3  Santa Teresa, cittadina messicana ai confini col Texas che nella realtà si chiama Ciudad Juarez,  è sì luogo infernale, ma anche e con maggiore significato letterario, luogo della libertà dell’uomo nel bene e nel male, rovesciamento di canoni e aspettative umane. Nelle parole di Bolano, a cui era stato chiesto di definire l’Inferno, questo  appare proprio “come Ciudad Juarez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e  della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”. Come infame interpretazione della libertà, Santa Teresa è luogo fondamentale nelle opere di Bolano: presenza di Bene e Male, violenza e poesia, sogno e realtà, immagini e fantasia e tant’altro ancora.  Nel prevalere di regole predatorie della libertà, ne La  parte dei delitti essa è insieme suggestione minuziosa ed esasperazione negativa: brutalità e violenza assassina frantumano corpi e sentimenti privi di difese, li annientano abbandonati a se stessi senza più umanità. La suggestione della libertà comprende in sé il caos primordiale. All’inizio dei Dispiaceri,  la libertà omosessuale costringe Amalfitano in Messico, via dal suo amante, il poeta Padilla, e dalla Spagna. Le speranze di entrambi sono condannate al nuovo ordine spietato della sopravvivenza.  In 2666 Amalfitano deve fare i conti con l’estremo male della libertà: l’amore diventato corruzione, il suo codice erotico tramutato in morte. La figlia Rosa fugge negli Stati Uniti per salvarsi dal sospetto di partecipare agli snuff movies. Il caos prevale sull’ordine delle cose.
Allontanarsi dai canoni correnti è qualità specifica del grande scrittore. Nelle parole di Amalfitano nei Dispiaceri troviamo Bolano stesso. “Alla radice di tutti i miei mali si trova la mia ammirazione per i delinquenti, le puttane, gli squilibrati, si diceva Amalfitano con amarezza. Nell’adolescenza avrei voluto essere ebreo, bolscevico, negro, omosessuale, drogato e mezzo matto, e come se non bastasse monco, ma sono diventato solo un professore di letteratura. Meno male, pensava Amalfitano, che ho potuto leggere migliaia di libri. Meno male che ho conosciuto i  Poeti e che ho letto i Romanzi. (I Poeti, per Amalfitano, erano esseri umani splendenti come un lampo, e i Romanzi, le storie che nascevano dalla fonte del Don Chisciotte). Meno male che ho letto. Meno male che posso ancora leggere, si diceva tra scettico e speranzoso.“ *4

La salvezza è nelle parole dei libri. Sempre Amalfitano, in Chiamate telefoniche racconta una storia che ha sentito raccontare, in cui un coscritto per errore finito in un campo delle SS, scoperto dai russi e scambiato per un collaborazionista, si salva esclamando “cazzo” perché la parola suona come “Kunst” in tedesco, termine che indica l’arte. L’arte e la poesia convivono fortunatamente con la barbarie. Quando è il loro momento sconvolgono i canoni correnti. In una forma provocatoria, il racconto diviene verità in cui tutto è sensato e insensato insieme, indifferente alla morale e al suo equilibrio, tempo che coglie l’umanità nella sua vastità espressiva senza i limiti imposti da canoni morali ed estetici. Prima viene la verità della vita, il tempo e la libertà del caos prima della regola morale. Vorremmo la vittoria del bene, ma come in un sogno o un incubo la vita mette in vetrina se stessa in modo cinico e disincantato, ironico e sprezzante della mediocrità di ogni compromesso, vita libera di pescare nella parola e nel tempo per trovare la realtà umana affrancata dalla norma razionale. “L’insegna, a grandi lettere rosse, annunciava la cantante di rancheras Coral Vidal, una seduta di striptease comunicativo e il famoso mago Alexander. Sotto la pensilina all’ingresso, in un brulichio di gente insonne, vendevano sigarette, droghe, frutta secca, riviste e giornali di Santa Teresa, Città del Messico, California e Texas. Mentre pagava un quotidiano della capitale, me ne dia uno qualunque, aveva detto all’edicolante, mi dia l’ ‘Excélsior’, un bambino gli tirò la manica.” *5  Come Arturo Belano nei Detective selvaggi, Amalfitano scopre il presente  quale replicante della vita sua e di altri, è costretto a trovare un ordine nella vita reinventandosi dentro nuove condizioni, tra passato e presente, memoria e scelta.
Nei Detective selvaggi,  Belano e Ulises Lima sono poeti in cerca di altri poeti, si muovono tra luoghi e persone  senza un delitto o un’indagine reale, lontani dall’essere detective secondo i canoni correnti. Cercano se stessi dentro a un fiume vitale- forse lo stesso di Huckleberry Finn-  nell’avventura tra mille affluenti e rivoli spesso insignificanti. E arrivano al mare. Dentro l'acqua salata della storia, appare la poetessa Cesàrea Tinajero che assume la parte simbolica che avrà Arcimboldi in 2666, poesia e letteratura fuori dai canoni. Ulises Lima e Arturo Belano, come real-visceralisti in cerca di se stessi e della poesia dentro un ordine più vasto, disordinato, attraversano con il lettore un mondo che è reale proprio perché ideale,  un paesaggio in cui i segni dell'intelletto e della poesia vorrebbero sostituire quelli della carne e della violenza. Nella realtà basta che la poesia non sia annullata dalla violenza ma le conviva fortunatamente accanto, come nei passi citati sopra su Amalfitano nei Dispiaceri e in Chiamate telefoniche: quando è il suo momento essa sconvolge i canoni correnti.
Leggendo Terzo Reich mi chiedevo dove volesse arrivare Bolano. Se il gioco del terzo Reich è la metafora di qualcosa, una presenza non casuale della violenza, e l’insistenza sul Bruciato, sulla sua forza bruta e misteriosa un simbolo vivente della Storia con i suoi misfatti.  Se c’è la cosa in sé in lui come in Philip Dick, e quell’uomo tornato bambino davanti a forze oscure è lo stesso nel Terzo Reich come nel Tempo fuor di sesto a cui s’ispira.  Ma in Philip Dick la lucidità della  memoria riporta a galla la verità delle cose, in Bolano no: la suggestione dell’ignoto la suggerisce soltanto, detta le priorità senza mai chiarirsi, prepotente come nella realtà di ciascuno di noi. Disegna sempre nuovi quadri. La ripetizione dello war game spinge Hudo Berger dentro un gioco sconosciuto e alla replica adulta dell’amore per Else, con la rinuncia all’ordine solito della fidanzata. Hudo ne esce sconfitto. Negli scenari sempre nuovi delle simulazioni del gioco, non sa più rispondere da campione. La sua sconfitta significa che la libertà ha un suo codice perfetto, dove prepotenza del gioco e regole impersonali di provenienza oscura ipnotizzano l’uomo e il suo amore. Vittoria del Terzo Reich. Una prepotenza vitale decifrabile come suggestione della libertà, una fuga che porta la persona lontano insieme ai sogni descritti con insistenza da Bolano, ma  senza i poeti protagonisti delle altre opere.  Verità crudele del vivere oltre se stessi, la fuga diviene continua in 2666. “La fuga si trasformava in libertà, anche se la libertà serviva soltanto a continuare a fuggire. Il caos si trasformava in ordine, sia pure a spese di quello che è comunemente noto come senno.*6.  Nuovi confini s’aprono al corpo e alla mente, si abbattono i vincoli. Nella suggestione la libertà si deforma e si amplia,  esorcizza paure e desideri e diventa sogno. Come accade a Molly nel monologo dell’ Ulisse di Joyce, un’esenzione temporanea dalla  prepotenza lascia la vita libera di ripetersi con altra armonia. Ignota. La libertà è replicata in mondi paralleli, eccezioni alla norma. Ecco l’ordine di 2666: solo nel disordine siamo concepibili. A Santa Teresa, in 2666, è questo l’elemento vitale di Amalfitano. Replicando a suo modo Duchamp,  appende a un albero come biancheria da stendere un libro di Dieste, Il testamento geometrico. Per giorni ne contempla il disfacimento e la degenerazione dovute agli agenti esterni. Ammira l’ordine che contiene anche il disordine, la nuova verità dei frammenti: realtà e vita oltre la geometria, l’indescrivibile oltre l’ordine, l’eccezione che mostra l’altra verità del mondo. Il frammento dissennato clona l’avventura umana a contatto con la vita. Amalfitano interroga il replicante di un filosofo “ammalato”, lo scomparso Guyau. E la suggestione della libertà esce dal sogno. Guyau forse gli direbbe: “Sia felice. Viva l’attimo. Sia buono. O il contrario: lei chi è? Cosa ci fa qui? Se ne vada. “*7.  Amalfitano chiede aiuto: non sa cosa è bene. Restare o fuggire. La ricerca di una risposta è il motivo per il 2666 di Bolano, motivo inseguito pagina dopo pagina, con amore. Restare e vivere l’attimo: l’amore di questo s’alimenta, ma anche l’odio. Andarsene: del movimento l’ordine creativo s’alimenta, come pure la libertà. Fuggire con una puttana non assassina come quella dei detective selvaggi,  sospesa tra brutalità e poesia. Diversamente umana e perciò più umana. Fuggire dentro Santa Teresa, tra I dispiaceri e i suoi luoghi più umani, capaci di un nuovo ordine per il vero poliziotto. Lì c’è un’isola senza mare in cui poter scoprire la magia, con il suo volto suggestivo.  Lì la voce suggestiva del vecchio mago Alexander indovina le carte estratte dall’ignoto oltre l’ordine apparente: dove si mostra la perdita dell’amore, proprio lì replica attimi d’amore eccezionali e commoventi nascosti dalla vita ordinaria. Nel nuovo ordine è riconosciuto il legame che unisce padri e figli.
“Un’altra carta. E poi un’altra, in un’altra fila, e le carte continuano a formare, annunciate coralmente dagli spettatori, una scala reale di cuori (… ) Nel portafoglio, tra una foto di Rosa a dieci anni e un foglietto ingiallito e stropicciato, trovò la carta. Che carta è, signore? disse il mago, guardandolo fisso (… ) La regina di cuori, rispose Amalfitano. Il mago gli sorrise. Come avrebbe fatto suo padre.”    *8











1.      R. Bolano, 2666- La parte di Arcimboldi- Adelphi 2007-pag.  483
2.       I dispiaceri del vero poliziotto- Adelphi 2011, pag.104
3.      2666- La parte dei delitti, pag. 154
4.   I dispiaceri del vero poliziotto, pag. 119-120
5.   Ibidem, pag.115
6.  2666- La parte di Amalfitano- pag.240
       7Ibidem- - pag. 246

      8.   I dispiaceri del vero poliziotto- pag.114




https://vimeo.com/56910162

Ecco il video della mia presentazione del libro Sancio, io e l'isola di nessuno, a La Regenta, associazione Italo-spagnola di Bologna, nel dicembre 2013.

Qui sotto, riassumo il senso della mia opera, 1a ex aequo al premio nazionale Contemporanea d'autore 2013 di Alessandria, per la categoria saggistica. (Foto)





Nessuno è una presenza universale più grande di Ulisse, di cui è l’alias,  per il rapporto tra parola e tempo reale.  Dominio della parola nella realtà, Nessuno s’impone come unica realtà temporale, che nasconde l’uomo al mostro dell’annientamento brutale, la morte sotto forma di Polifemo. Alias di Ulisse dentro al cavallo di legno, realtà latente nascosta ai Troiani, è inconscio sopraffattorio, ripreso da Joyce nel monologo di Molly dell’Ulisse.
Dante teme Nessuno, per la sua parola ingannevole alternativa a quella di Dio, alla divinità della Commedia. L’avventura di Ulisse è troppo vicina a quella di Gesù, come lui ipotesi d’uomo che sconfigge tempo e morte. Risurrezione della giustizia. La tensione verso Beatrice va verso la parola di Dio per superare il Nessuno illusorio, mortale. Illuminata dall’amore, ma non profana come in Penelope o in Molly, è lei la strada per il Paradiso. L’amore è lo specchio della conoscenza di Dio, umanità della divina armonia superiore all’uomo stesso.
Come noi, Ulisse ricerca la verità, Fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Ma è alternativo a Gesù, sostituendo a Dio Nessuno,  uomo delle ipotesi ingannevoli che infrangono la sacralità della parola. Con la sola fede dell’intelletto e della parola, illuminata dalla sofferenza e dalla sopravvivenza, investiga la realtà anticipando un giallo o un noir di oggi. Senza Dio, trova la vendetta. L’avventura solitaria di Ulisse, che rende mobili i confini imposti dalla Chiesa al mondo e alla parola, lo condanna all’inferno.
Ma può valere ancora oggi la condanna di Nessuno e del suo inganno nella parola infedele e traditrice? O appartiene solo a Dante e al suo tempo, alla sua parola divina? L’integrità personale e affettiva di Dedalus e Bloom è profana come quella di Ulisse- Nessuno? Nel monologo di Molly solo lei, non loro, vede la necessità di Dio per vincere la paura della morte. È sempre lo stesso il posto che ha la fede, religiosa o ideologica, nella società d’oggi, nell’avventura umana? Vale più di altri motivi, più profani seppure amorosi, come quelli in cui s’identifica l’uomo della città ingannevole, una Dublino che vale ogni altra città?
Cinque secoli prima di Joyce, quella amata da Don Chisciotte è la parola nota a tutti, invenzione dell’unica realtà che conta, isola di salvezza per tutti e per nessuno. Dimensione creativa e superiore dell’uomo incarnata dai cavalieri erranti.
Nessuno è Don Chisciotte che lascia il paese natio, la vita passata e la sua stessa identità, creando un mondo virtuale che risuscita la parola dei cavalieri erranti. La parola immaginaria lo rende Nessuno per gli altri, abitante virtuale che non sa di esserlo e vive una parola che crede nota a tutti,  mentre lo è solo per lui, uomo solo, unico nella finzione, nella Parola inventata per l’avventura. Con Don Chisciotte, Sancio divide l’essere Nessuno nella fedeltà alla parola delirante che rende mobile la realtà, estesa all’immaginazione fino alla promessa dell’isola di cui sarà il Governatore. Sancio accoglie Nessuno in sé, nella parola intesa come delirio d’onnipotenza.
La distanza ironica di Cervantes non diminuisce la verità della loro ricerca del mondo dentro la parola. Demistifica i cavalieri erranti, la loro parola deprivante del  significato di realtà, ma le contrappone l’unione tra realtà e fantasia in una parola più umana e credibile, in cui vita e morte appartengono al sentimento. Ricerca moderna: realtà e immaginazione non debbono contrapporsi artificiosamente, ma saldarsi nella parola naturalmente. Come  Sancio, e tutti noi, deve sopravvivere al delirio della parola di altri abbracciando realtà e finzione.
In Sanc-io abbraccio il mio io e l’isola promessa. Con lui la mia vendetta poetica rende il delirio consapevole, fattore di sopravvivenza. Col delirio consapevole arriviamo al tempo di Nessuno: se Nessuno è presente dopo Ulisse, è possibile che in tempi e contesti a noi più vicini la sua parola sia realtà unica e superiore, forza travolgente che unisce sempre l’immaginazione all’evidenza? Si può dire, ora come ai tempi di Omero, Nessuno è vivo nella realtà quotidiana? La parola nota a tutti di Joyce è la stessa di Ulisse che si proclama Nessuno?
Nella sua metamorfosi in scarafaggio, la parola esce da Gregor Samsa sotto forma di suoni strozzati e mostruosi, orridi per i suoi cari: Gregor è senza gola umana. Perciò l’impotenza che ne deriva si contrappone all’assenza di parole dentro al cavallo di Troia, a quella di Nessuno davanti a Polifemo. Senza gola, Gregor muore vittima del silenzio forzato della sua metamorfosi: la sua voce non può articolare parole comprensibili agli altri, mostro la cui parola cade nel nulla.
In Pirandello, la realtà della parola identifica il protagonista in modo diverso a seconda di chi sia il parlante: è Uno, ma anche nessuno e centomila. In qualità di nessuno assume volti e nomi diversi in funzione dei diversi punti di vista. Gengè, o Vitangelo Moscarda, ma comunque reale e immaginario insieme. Nessuno, appunto, o Don Chisciotte. Lo specchio della parola è mutevole, ma comunque reale: come Nessuno. Centomila e Nessuno sono gli attributi che la parola manifesta nell’interagire delle persone, fondendo realtà e immaginazione.
In Joyce, Nessuno è un Bloom che vaga nella sua Dublino acquatica. Vaga in cerca di Molly, la donna amata che l’ha tradito.  La parola narrativa deve ricuperargli la sua identità andando oltre il tradimento. Nel finale del monologo della sua Molly, lei dice all’amore per l’uomo che ha ingannato. Con la parola “sì”, il finale poetico riscatta una realtà amorosa che ondeggiava nel tempo e nel sospetto, lontana dagli affetti come Ulisse lontano da Itaca per troppi anni. La parola è scelta di vita oltre il possibile della banalità evidente, come Ulisse fuoriesce dal silenzio del grande cavallo imponendo la realtà di Nessuno: l’uomo trova se stesso nel tempo creato dalla parola. Io stesso mi accorgo di essere Nessuno, avvicinatomi alla realtà dei grandi personaggi letterari di ieri e di oggi. Da quando lo sono? Da quando non la fede, ma la parola profana, è lo specchio dell’uomo di Joyce e il mio personale?
L’isola di Nessuno per me è la letteratura stessa, il luogo e il tempo in cui la parola diviene realtà umana a tutti gli effetti. È la parola nota a tutti di Joyce. Realtà e immaginazione, verità e menzogna, certezza e dubbio, amore e morte, sogno ed evidenza, promessa e illusione, delirio e consapevolezza. Debolezza umana. Unità o divisione, identità o presenza del sosia, doppelganger. Volontà esterna del mondo.
     
L’opera letteraria, come la vita,  è unica e irripetibile per Cervantes, gioco originale della parola e momento d’interazione personale. Come in Kafka, come in Cervantes, uomo reale e uomo della finzione raggiungono la perfezione vitale nel gioco della parola con le identità umane. La parola ha l’isola di Nessuno come luogo e tempo di questa originalità. L’invenzione di Nessuno per Ulisse, come quella di Don Chisciotte per Chisciano il Buono o lo scarafaggio per Gregor Samsa, è una nuova identità dentro questa isola: luogo letterario per eccellenza in cui la parola si manifesta nelle sue potenzialità virtuali.
Luogo specifico accennato da Milan Kundera in L’arte del romanzo, in cui è possibile una storia nuova della letteratura come realtà contestuale della parola,  i cui confini sono mobili, pena la perdita di vitalità, perfetti perché simulati. La fine del Don Chisciotte è esemplare a tal riguardo, come la morte di Ettore nell’Iliade.
Dopo la loro morte, la vita virtuale della parola prosegue come la vita di Nessuno nelle voci dei Ciclopi. Il testo è divenuto contesto virtualmente presente. La parola identità. La realtà virtuale esiste da sempre: è la parola di Nessuno, realtà del pensiero indotta dalla nuova identità possibile nella parola.

Così rivivono i cavalieri erranti, e rimane vivo Nessuno dopo aver sconfitto Polifemo e i Troiani ai tempi di Omero, realtà virtuale anche di oggi. Nella sua isola, si sommano realtà e invenzione, parola e delirio, identità presenti o solo possibili, sempre con lo stesso valore ed efficacia.
La tecnologia in 3D rende viva davanti a noi l’identità possibile. Siamo nuovi Nessuno davanti ai Ciclopi, ma con ben altro che il solo suono della voce a disposizione dell’immaginazione e del pensiero, per realizzare la nostra dimensione virtuale. La parola rimane un punto fermo colla sua forza inoppugnabile, sentimento e volontà vitale, con un tempo suo, interiore, non solo cronologia esterna del nostro vivere. La parola- identità è presenza di base che rende possibili altre realtà virtuali, inferiori a lei nell’ordine e nel caos delle cose, come il bambino che inizia a parlare, dicendo mamma e papà, rimasto dentro tutti noi come nuova realtà nel caos vitale.


Verità umana, il cui mistero è un interrogativo aperto sulla forza della parola e la sua dimensione virtuale. Asserzione sul tempo e sull’uomo, sulla sua vita e la sua morte. Distinzione tra Arte e Scienza in Pirandello, o  Parola nota a tutti di Joyce. Il testo è contesto, oggi più che mai, la parola letteraria crea tempo ora come ai tempi di Omero, ma con una comunicazione diffusa in tempo reale e tridimensionale.