domenica 27 aprile 2014

La verità più vicina

La verità più  vicina  
           
Trovarsi lì era strano. Ipotizzai che qualcuno avesse pensato a uno scherzo di cattivo gusto  senza avere nessun soggetto credibile a disposizione, escludendo a priori la possibilità di un volontario. C’ero solo io, in quella grande piazza deserta, senza maschera e disarmato.

Chiunque avesse ideato il luogo e lo scenario, poteva realizzare tramite me il sogno che qualsiasi pubblico avrebbe gradito. Chi più di me adatto alla messinscena? Solo in un momento successivo riflettei che non c’era stata né miseria né compassione da suscitare in qualche sguardo commosso, solo piacere sadico e cinico. Mi venne in mente un quadro di De Chirico. La piazza era deserta, e io in mezzo a quel vuoto sembravo perfettamente spaesato, come un uccello pietrificato che aveva perso l’orientamento del volo mentre lo stormo numeroso e chiassoso era migrato altrove. Non potevo muovermi. Un uomo enorme, un aguzzino muscoloso di quasi due metri, il torso nudo e la testa rasata e corrucciata da grosse pieghe della pelle, sudata e rossa, comparve davanti a me ghignando con ferocia. Io lo guardai restando di sasso, inorridito e incapace di un benché minimo movimento. Chi mi osservava da fuori poteva finalmente sfogare su un altro umano come lui,  un essere destinato a subire ogni giorno, la sua insofferenza per la vita costretta in buchi rumorosi,  pensai, annullare in quell’ampio spazio le  presenze pressanti di ogni giorno. Si ritaglia la sua isola felice di spettatore. Eppure non vidi nessuno al di fuori del mostro e me.
Però può darsi che non sia terrore il mio stato d’animo, pensai per un attimo, che sia solo  sorpresa e frustrazione nell’impotenza di prevedere cosa succederà. Cosa vuole da me l’energumeno? Perché io e solo io sono qui come unica vittima della sua brutalità?
Le cose non hanno sempre una spiegazione razionale e questa era una di quelle volte. Impossibile esercitarsi nell’analisi e nel calcolo delle variabili in gioco. Non ne ebbi comunque il tempo. La sua morsa mi strinse i fianchi, mi sentii sollevare da terra come un ragazzino di cinquanta chili o poco più. Ne pesavo ottanta allora e un dolore diffuso misto a senso di leggerezza mi pervase tutto il corpo, pensai- lo ricordo bene- a una scarica di elettricità molto forte per fortuna non letale. La sua punta più acuta mi trafisse in un luogo indefinito che io collocai in un punto preciso della mente, il corpo divenuto insensibile. La mente ancora qui e il corpo assente altrove. Il pubblico applaudiva, lo sentii distintamente. Continuai a non vedere nessuno e a non capire perché proprio io. Possibile che fosse una cosa così personale da essere improbabile nella realtà e che un dolore (che definirei sublime) fosse solo il frutto della mia mente turbata da un incubo notturno?

Qualcosa mi dice il contrario, è tutto vero!, mi sorpresi a dire a me stesso.