Il cuore del pennello
Stranamente
nel cuore di Bologna. Anche se non fa
parte del vero e proprio Centro
Storico, Via San Petronio Vecchio ha il suo sbocco su Via Guerrazzi, dove il
collegarsi di Strada Maggiore con Santo Stefano la proietta nella vita pulsante
della città con una certa discrezione. Appartata e dimessa, almeno per chi
l’osserva non troppo attentamente scorrendo di passaggio, non sembra curarsi della
promiscuità spudorata e baldanzosa delle sue più illustri compagne. Lascia loro
la pulsante vitalità cittadina e tiene per sé il fascino dell’antico quartiere
popolare, una modestia rinnovata di portici, palazzine e soprattutto marciapiedi,
logori per passaggi ripetuti all’infinito nel passato e ancora nel presente, lacerati da interruzioni e
sbalzi del terreno.
Arrivando da Via del Piombo,
il marciapiede risaliva appena verso
l’incrocio con Via Remorsella e subito prima della bottega, e ogni volta mi sorprendevo
della sopraelevazione brusca e stretta che immaginavo trasferita qui da una
cittadina collinare. Un passaggio a senso unico, come se una volontà estranea
l’avesse materializzata per impedire alle biciclette di scorrere sotto il
portico infastidendo i pedoni, anche se dubito sia mai riuscita nell’intento.
Di fatto bisognava stare sempre attenti a scansare qualche ciclista, un
dispetto o una scelta di chi preferisce il riparo scorrevole del portico
all’asfalto ruvido aperto di sotto, mi dicevo. Quel giorno notai che il locale sulla mia sinistra, vuoto ormai da
alcuni giorni, era stato imbiancato e qualcuno dentro stava allestendolo,
avendo posizionato quadri e litografie vicino alle pareti per poterli poi
appendere. Diedi un’occhiata più curiosa e meno affrettata, fermandomi davanti
alla vetrina esterna quasi sfacciatamente, sentendomi giustificato a farlo dal
mio interesse verso l’arte e i quadri. L’uomo sembrò accorgersene, per una strana
sensibilità sul suo dorso. Animale sensibile. Si voltò di scatto con un gran sorriso
sicuramente rivolto a me, unico passante fermo lì davanti. L’occhiale spesso
deve nascondere un udito molto acuto, ricordo che pensai. Mi rivolse la parola
con fare cordiale e mellifluo, strana commistione che sfociò in un Prego…
farfugliato, un invito ad entrare al
quale non potei sottrarmi.
“Veda,
sto finendo di allestire … mi chiamo Paolo e lei?”
Mi
aveva dato cortesemente del Lei, a me parecchio più giovane di lui, cortese nei
suoi sessanta anni o qualcosa di più, io nei miei trenta appena iniziati.
Allora ero ancora affascinato dalle avventure e dal nuovo in un modo che
definirei morboso, mi apparteneva di diritto l’idea che nel presente tutto è
possibile, quindi potevo lasciare ad altri passato e futuro, i loro luoghi comuni del destino segnato nel
tempo, per vivere un presente pieno. Vincenzo, mi chiamo Vincenzo. E sono
disoccupato … (questo non avrei dovuto dirlo, non so perché sentii il bisogno
di farlo, forse voglio scusarmi d’essere tanto più giovane di lui, pensai). Mi
son fermato attratto dalla novità … questa è una nuova bottega d’arte, giusto? Lei
è un pittore?
Sì,
certo, disse lui.
Ci
fermammo a parlare per un po’, venne sera in fretta. Abbandonai l’idea
d’avviarmi a piedi verso le Due Torri per fare un giro per i negozi e vedere un
po’ di gente. Sentivo un’atmosfera particolare aleggiare nel vano di quella
bottega appena nata, come la sensazione
di un’energia e d’un mistero umano che insieme inquietavano e attraevano.
Morbosi.
Tornai
a casa chiedendomi che cosa ci fosse d’inafferrabile in quell’uomo appena
conosciuto, se fosse l’artista o la presenza fisica di Paolo ad avermi
trasferito un’emozione nuova di prospettiva diversa rispetto a cose e uomini.
Certo, non conoscendo la persona e il suo passato, non avevo neanche indizi che
mi permettessero di fare ipotesi al riguardo, di analizzare in via del tutto
teorica le possibili conseguenze sul presente lasciate dalle tracce del suo vissuto. Fu solo qualche giorno dopo,
in una qualche visita successiva, che conobbi il suo cognome: Casaroli. Il famoso
bandito degli anni Cinquanta! Ecco chi era la persona con cui avevo iniziato un
dialogo sull’arte e la psicanalisi di Jung, era il famigerato capo della banda Casaroli, quello che aveva
compiuto rapine alle banche causando feriti e morti per le strade di Bologna.
Mi venne in mente quando in Via Santo Stefano, parecchi anni prima, avevo visto Renato Salvatori girare il
film sulla banda, simulando le sparatorie. Impressionato e incuriosito dal
fatto che il film si girasse a quattro passi da casa mia, mi ero informato e
avevo scoperto che a Bologna proprio nell’anno della mia nascita, il Cinquanta,
c’erano state sparatorie per la strada, morti e feriti per terra.
Lui, l’ex
bandito, aveva aspettato a dirmelo che fossimo entrati più in confidenza e
questo aspetto dell’improvvisa rivelazione d’un passato losco e oscuro mi turbò
ancor più. Osservavo l’anziano ometto del presente, artista e intellettuale,
sorridente ed entusiasta per la possibilità di vivere la vita rimastagli dopo
ventotto anni di prigione, facendo quello che a lui piaceva e in libertà, e lo
paragonavo all’immagine cinica e spietata, forsennata e folle, d’un giovane che
aveva rapinato e sparato, persino ucciso. Era rimasto nella memoria collettiva
dei cittadini di Bologna per la sua malvagia e ferocia. Come poteva essere lo
stesso soggetto, come può un individuo essere distruttivo e violento fino agli
estremi, e poi riuscire a cancellare
quella parte di sé e inventarsi un presente creativo e pacifico dentro alla
sublimazione dell’arte? Un uomo vivace e sorridente, piccolo, poco sopra l’uno
e sessanta, lo sguardo ispirato e appassionato, gli occhiali spessi portati con
disinvoltura, il sorriso pronto e la parola veloce, mai monotona, la voglia di
comunicare e spiegare e l’eloquio consapevole e un po’ sprezzante di ignoranza
e mediocrità intellettuale: quell’artista che si agitava davanti a me e mi
spiegava che la Storia non è lotta tra il Bene e il Male, tra il Materialismo e
l’Idealismo, tra la Religione e l’Ateismo o l’Eretismo, no, è la dialettica
impossibile tra l’Introverso e l’Estroverso, Jung aveva capito tutto nei suoi tipi psicologici, bisognava estendere
questa comprensione al Mondo e alla Storia, lo diceva la sua stessa vita
vissuta fuori e dentro la prigione, quel Paolo Casaroli che io stavo conoscendo
non poteva essere il terribile bandito da cui sarei dovuto fuggire inorridito!
Impossibile. Feci finta di niente per un po’.
Per
un sessantenne, ma forse ancor più per un trentenne, l’azione è una verità da
vivere senza contraddizioni, verità del
tempo che fugge, quel chi vuol essere
lieto sia di diman non v’è certezza. La morte è l’unica certezza,
aggiungevo dentro di me, inerzia assoluta ed eterna. Casaroli si muoveva senza l’idea della colpa, il passato lo
ricordava come una prigione da cui lui era uscito, un dopoguerra che uccideva
la dignità di tutti nella miseria e nell’accettazione passiva. Ma lui no, lui
aveva reagito, era uscito da quella prigione senza sbarre per conoscere quella
vera, quella degli uomini condannati all’ergastolo. Aveva pagato per il suo
orgoglio. Il tempo, si sa, riesce a coprire anche i peccati, li sa ridurre a
finzioni estemporanee coprendoli col pudore, li affida al presente perché li
superi con la libertà di nuovi orizzonti. Anche col pennello o con la penna,
come nel suo e nel mio caso. Io ero giovane e la mia fantasia correva veloce
reinterpretando il passato, i morti erano cancellati dai vivi che incrociavo
sulla mia strada, alla televisione e al cinema, realtà instabili per cui il
bandito dimenticato era sostituito da nuovi protagonisti lontani da lui e da me.
Io e lui eravamo a tratti attori sconosciuti di un film in bianco e nero dei
primi anni ’50, un film non più presente neanche nelle sale d’essai come il
Rialto o il cinema Roma lì vicino in via Fondazza, impresentabili perché la
morte contava ogni giorno nuovi corpi e quelli vecchi scomparivano nel nulla. La
vita li aveva resi invisibili, troppo niente e troppo vuoto da immaginare.
Paolo Casaroli aveva fatto il suo tempo.
Intuivo che in lui veniva ancora negata la colpa, forse esistita
solo per un attimo d’immobilità prigioniera, prima che il movimento ne disperdesse le tracce negli spazi impossibili
del carcere. La vita lì dentro era continuata e aveva aggiunto sentimenti nuovi
ai vecchi, purificando il presente dalle contaminazioni del passato. La banda
Casaroli era una creatura estinta da tanto tempo, un mostro senza testa ignorata
da Jung, sepolta tra le miserie e le violenze del dopoguerra. Rimanevano dolore
fisico e consapevolezza superiore, raffiche di parole, proiettili a salve sul
mondo conoscibile che non potevano impaurire nessuno. Il film con le riprese di
Via Santo Stefano forse interessava ancora qualche giornalista impegnato con
fantasmi invisibili ma le morti di oggi, le uccisioni delle Brigate Rosse o i
delitti politici in tutto il mondo avevano spostato altrove l’attenzione, le
armi usate dal Casaroli incolpevoli in mancanza delle vittime cancellate
insieme al ricordo. Ora lui impugnava un pennello o anche un pennino alle volte,
i capelli grigi un po’ lunghi e la pancetta che spuntava sotto la camicia,
un’ombra irreale troppo lontana dal giovane Renato Salvatori del film, attore
bello, feroce e agile. Libero. Guardando la litografia del Cristo in croce che Paolo
mi aveva regalato, potevo solo scorgere i segni di un’arte strana e sofferta,
quasi uno slittamento del tempo che aveva fatto diventare Gesù un acrobata sublime, i chiodi a sospenderlo nel
vuoto come un circense in bilico sul baratro. Inerzia e movimento come
ossessione, come allora, come sempre nella sua storia e nella mia. Ma ora
nessun poliziotto o vigile a inseguirlo per
strada, per quello che riguardava lui, pensavo, solo le sue ossessioni. E le
mie. Rompere l’inerzia, l’ossessione di
chi non può far finta di niente. Il
presente di quel disegno e di tutti gli altri visti, tutti con la medesima
impronta di crocifissione senza colpa e tanto dolore, mi affascinava per i
corpi e le menti che l’agitavano dentro. Nei corpi dei quadri potevo trovare
l’uomo vivo, un Paolo Casaroli vero, dolore e delirio senza la faccia insolente di Renato
Salvatori.
Vedi
Vincenzo, è una visione nuova, decisiva, che nessuno ha ancora capito a pieno!
La storia dell’Uomo è tutta lì, nella battaglia continua, interminabile, tra
introverso ed estroverso … tutto è qui, questa teoria spiega tutto! Ecco,
dobbiamo fare qualcosa insieme, buttare giù l’idea su carta … tu che sei bravo
a scrivere. Me lo ripeteva ogni volta che ero davanti a lui. Io ci pensavo
sopra. Eh, non è facile, Paolo, da dove inizio? Come faccio a spiegarlo? Con
i tipi psicologici? E la società e i
suoi fattori? Sembrava che non mi ascoltasse,
però. Sì, è una cosa grandiosa, diceva, vedrai
una volta entrati tutto diventa chiaro, tutto si spiega naturalmente! Quando inizi tutto diventa facile, tutto si spiega.
Non
ero convinto. Non glielo dissi mai. Andammo avanti mesi a parlare di questo,
sviscerando o forse girando sempre intorno allo stesso concetto, adesso non
saprei più dire. Allora sembrava necessario approfondire. La vita in carcere per tanti
anni l’aveva potuto sopportare solo credendo in questo, formulando una
visione unica e vorace dell’Uomo e della Storia. Aveva letto e studiato per
aggiungere elementi alla sua cosmogonia storica, un disegno lineare e mobile in
cui le forze dell’universo s’erano compiutamente espresse e materializzate nei
due tipi psicologici, il loro movimento unica ragione per tutto il resto.
Poi,
improvvisamente, qualcosa cambiò: trovai un lavoro, non c’era più né tempo né
energie da dedicare a queste discussioni e al suo progetto. Via San Petronio
Vecchio, seppure a poche centinaia di metri da casa mia, sembrò troppo lontana
e faticosa da raggiungere. Rimase in me, e credo anche in lui, l’ossessione
dell’uomo e delle sue motivazioni, nell’agire e nel pensare: la necessità di
capire dove s’incontrano le cose che vanno e quelle che non vanno, nel genere
umano, soprattutto queste. Alcuni anni dopo, quando appresi dai giornali e
dalla televisione che era morto, incasellai quella perdita nelle altre che già
avevano segnato il mutare violento di affetti e certezze nella mia vita
quotidiana. Aumentò il senso di solitudine e quello di un destino lontano, la
percezione di uno spazio- tempo troppo vasto per essere compreso. Del resto,
finché Paolo era stato vivo, non avevo neanche capito com’era diventato un
bandito e cosa aveva provato ammazzando: forse niente, forse solo l’impulso a
sopravvivere anche a costo di uccidere.
Forse il momento in cui aveva premuto il grilletto non era stato diverso
da quello in cui aveva impugnato il pennello, tanti anni dopo: mosso
dall’istinto di trasformare la sua vita con un atto estremo e sublime,
incurante delle conseguenze per se stesso e per gli altri. Per liberare il
significato del movimento. Via San Petronio Vecchio e Via Santo Stefano
conservavano la verità, testimoni muti di allora come solo le pietre sanno
esserlo. Mentre le percorrevo, persone, vestiti, auto, bus e motorini
segnalavano altre presenze, altri corpi, passi e voci. Nessuna geometria della
sofferenza, non più.
Non ero stato né vittima né
artefice di un tempo assassino. Non avevo sparato, e ora mi chiedevo: potrei
impugnare un’arma senza nessun cuore dentro la mia mano assassina?
La
vetrina buia della bottega chiusa mi rispondeva col suo silenzio, segnalando al
mondo di passaggio qui che un altro corpo era stato ingoiato nel nulla. Un avviso listato a lutto in bianco e
nero. Via San Petronio aveva un modo suo di stare nel cuore di Bologna, pensai.
Non piangeva inutilmente, la perdita la conosceva da sempre, nella sua
geometria antica e irregolare di muri e marciapiedi. Un caos di linee assimilato
all'ordine, verità biologica della fine per ogni inizio di vita. Una sola morte
non la turbava, era un colpo di pennello su un muro, uno sfregio da cancellare
con un altro colpo di mano a ristabilire l’ordine del presente. Il pennello ha
un cuore, è una mano senza pistola, non sono la stessa cosa. Potevo cancellare
e ricominciare, allora.
Intorno
a me, nel rumore solito della vecchia via e nelle espressioni dei volti nuovi, l’angoscia
del nulla cedeva il posto alla curiosità. Mi parlava sottovoce, sorniona, di
altre possibilità di vita ancora da
scoprire.