venerdì 25 aprile 2014

                                    Il cuore del pennello 


Stranamente nel cuore di Bologna. Anche se non fa  parte  del vero e proprio Centro Storico, Via San Petronio Vecchio ha il suo sbocco su Via Guerrazzi, dove il collegarsi di Strada Maggiore con Santo Stefano la proietta nella vita pulsante della città con una certa discrezione. Appartata e dimessa, almeno per chi l’osserva non troppo attentamente scorrendo di passaggio, non sembra curarsi della promiscuità spudorata e baldanzosa delle sue più illustri compagne. Lascia loro la pulsante vitalità cittadina e tiene per sé il fascino dell’antico quartiere popolare, una modestia rinnovata di portici, palazzine e soprattutto marciapiedi, logori per passaggi ripetuti all’infinito nel passato e ancora nel presente, lacerati da interruzioni e sbalzi del terreno.
Almeno così erano all’inizio degli anni ’80, quando ricordo non mancavano sbrecciature dei muri, sporcizia di angoli e androni impossibili da evitare. Io vi passavo come dentro a un’abitazione in cui le stanze erano troppe per poter essere ripulite, e mi andava ben così, non avrei voluto le impronte del tempo cancellate a favore di un’asettica indifferenza ospedaliera. La bottega di Paolo era proprio qui dove passavo dirigendomi verso Via Guerrazzi, prima di imboccare Santo Stefano verso il Centro, oppure Piazza Aldrovandi verso l’Università in Via Zamboni.

Arrivando da Via del Piombo, il marciapiede  risaliva appena verso l’incrocio con Via Remorsella e subito prima della bottega, e ogni volta mi sorprendevo della sopraelevazione brusca e stretta che immaginavo trasferita qui da una cittadina collinare. Un passaggio a senso unico, come se una volontà estranea l’avesse materializzata per impedire alle biciclette di scorrere sotto il portico infastidendo i pedoni, anche se dubito sia mai riuscita nell’intento. Di fatto bisognava stare sempre attenti a scansare qualche ciclista, un dispetto o una scelta di chi preferisce il riparo scorrevole del portico all’asfalto ruvido aperto di sotto, mi dicevo. Quel giorno notai che il locale sulla mia sinistra, vuoto ormai da alcuni giorni, era stato imbiancato e qualcuno dentro stava allestendolo, avendo posizionato quadri e litografie vicino alle pareti per poterli poi appendere. Diedi un’occhiata più curiosa e meno affrettata, fermandomi davanti alla vetrina esterna quasi sfacciatamente, sentendomi giustificato a farlo dal mio interesse verso l’arte e i quadri. L’uomo sembrò accorgersene, per una strana sensibilità sul suo dorso. Animale sensibile.  Si voltò di scatto con un gran sorriso sicuramente rivolto a me, unico passante fermo lì davanti. L’occhiale spesso deve nascondere un udito molto acuto, ricordo che pensai. Mi rivolse la parola con fare cordiale e mellifluo, strana commistione che sfociò in un Prego… farfugliato, un invito ad  entrare al quale non potei sottrarmi.

“Veda, sto finendo di allestire … mi chiamo Paolo e lei?”

Mi aveva dato cortesemente del Lei, a me parecchio più giovane di lui, cortese nei suoi sessanta anni o qualcosa di più, io nei miei trenta appena iniziati. Allora ero ancora affascinato dalle avventure e dal nuovo in un modo che definirei morboso, mi apparteneva di diritto l’idea che nel presente tutto è possibile, quindi potevo lasciare ad altri passato e futuro,  i loro luoghi comuni del destino segnato nel tempo, per vivere un presente pieno. Vincenzo, mi chiamo Vincenzo. E sono disoccupato … (questo non avrei dovuto dirlo, non so perché sentii il bisogno di farlo, forse voglio scusarmi d’essere tanto più giovane di lui, pensai). Mi son fermato attratto dalla novità … questa è una nuova bottega d’arte, giusto? Lei è un pittore?
Sì, certo, disse lui.
Ci fermammo a parlare per un po’, venne sera in fretta. Abbandonai l’idea d’avviarmi a piedi verso le Due Torri per fare un giro per i negozi e vedere un po’ di gente. Sentivo un’atmosfera particolare aleggiare nel vano di quella bottega appena nata,  come la sensazione di un’energia e d’un mistero umano che insieme inquietavano e attraevano. Morbosi.

Tornai a casa chiedendomi che cosa ci fosse d’inafferrabile in quell’uomo appena conosciuto, se fosse l’artista o la presenza fisica di Paolo ad avermi trasferito un’emozione nuova di prospettiva diversa rispetto a cose e uomini. Certo, non conoscendo la persona e il suo passato, non avevo neanche indizi che mi permettessero di fare ipotesi al riguardo, di analizzare in via del tutto teorica le possibili conseguenze sul presente lasciate dalle tracce  del suo vissuto. Fu solo qualche giorno dopo, in una qualche visita successiva, che conobbi il suo cognome: Casaroli. Il famoso bandito degli anni Cinquanta! Ecco chi era la persona con cui avevo iniziato un dialogo sull’arte e la psicanalisi di Jung, era il famigerato capo della banda Casaroli, quello che aveva compiuto rapine alle banche causando feriti e morti per le strade di Bologna. Mi venne in mente quando in Via Santo Stefano, parecchi anni  prima, avevo visto Renato Salvatori girare il film sulla banda, simulando le sparatorie. Impressionato e incuriosito dal fatto che il film si girasse a quattro passi da casa mia, mi ero informato e avevo scoperto che a Bologna proprio nell’anno della mia nascita, il Cinquanta, c’erano state sparatorie per la strada, morti e feriti per terra.
Lui, l’ex bandito, aveva aspettato a dirmelo che fossimo entrati più in confidenza e questo aspetto dell’improvvisa rivelazione d’un passato losco e oscuro mi turbò ancor più. Osservavo l’anziano ometto del presente, artista e intellettuale, sorridente ed entusiasta per la possibilità di vivere la vita rimastagli dopo ventotto anni di prigione, facendo quello che a lui piaceva e in libertà, e lo paragonavo all’immagine cinica e spietata, forsennata e folle, d’un giovane che aveva rapinato e sparato, persino ucciso. Era rimasto nella memoria collettiva dei cittadini di Bologna per la sua malvagia e ferocia. Come poteva essere lo stesso soggetto, come può un individuo essere distruttivo e violento fino agli estremi, e poi riuscire  a cancellare quella parte di sé e inventarsi un presente creativo e pacifico dentro alla sublimazione dell’arte? Un uomo vivace e sorridente, piccolo, poco sopra l’uno e sessanta, lo sguardo ispirato e appassionato, gli occhiali spessi portati con disinvoltura, il sorriso pronto e la parola veloce, mai monotona, la voglia di comunicare e spiegare e l’eloquio consapevole e un po’ sprezzante di ignoranza e mediocrità intellettuale: quell’artista che si agitava davanti a me e mi spiegava che la Storia non è lotta tra il Bene e il Male, tra il Materialismo e l’Idealismo, tra la Religione e l’Ateismo o l’Eretismo, no, è la dialettica impossibile tra l’Introverso e l’Estroverso, Jung aveva capito tutto nei suoi tipi psicologici, bisognava estendere questa comprensione al Mondo e alla Storia, lo diceva la sua stessa vita vissuta fuori e dentro la prigione, quel Paolo Casaroli che io stavo conoscendo non poteva essere il terribile bandito da cui sarei dovuto fuggire inorridito! Impossibile. Feci finta di niente per un po’.
Non potevo certo accusare del suo passato quell’uomo appena conosciuto, il presente con la sua miseria e ricchezza era allora la mia religione, il passato contava meno anche se non poteva dirsi passato del tutto, e la discrezione m’imponeva il rispetto della sua sfera più intima e certamente sofferta, se non altro per la condanna all'ergastolo e una lunga estromissione dalla vita civile di uomo libero, come m’immaginavo pensando a tutto questo. Non poteva certo essere stata una vita felice. Cercavo d’indovinare, senza riuscirci, motivi e situazioni del suo delinquere. Il film con Renato Salvatori l’avevo visto troppi anni prima e ora rimaneva solo il presente della bottega di Via San Petronio Vecchio, con le litografie e i quadri tutti con la stessa impronta visiva. Gesù crocifissi e figure sofferenti ma danzanti, corpi allungati separati internamente in compartimenti geometrici. Braccia e gambe sembravano ali, snodi di percorsi mentali svolazzanti, le ginocchia erano sempre piegate, volevano dimezzare le gambe in modo netto e preciso, separare i muscoli in uno sforzo innaturale; le teste ripiegate su se stesse avevano un modo doloroso, eppure conscio di energia salvifica. Forse non gli era possibile fare altro in carcere, solo rappresentarsi così con un significato dentro al mondo e alla storia. Da lì era nata la sua concezione di Introverso ed Estroverso, il corpo prigioniero un ostacolo illuminante nella mente, la lotta di dolore e azione negli arti umani divenuta reale nell’ambivalenza della psiche, introversi contro estroversi. Jung era nient’altro che un atto di conoscenza egocentrica, la sua storia personale divenuta corso della Storia, lo scontro tra Bene e Male ridotto a prevalere dell’inerzia o del movimento. Quest’ultimo a vantare il valore che gli competeva, principio della Storia dell’uomo da sempre, nei secoli.
Per un sessantenne, ma forse ancor più per un trentenne, l’azione è una verità da vivere  senza contraddizioni, verità del tempo che fugge, quel chi vuol essere lieto sia di diman non v’è certezza. La morte è l’unica certezza, aggiungevo dentro di me, inerzia assoluta ed eterna. Casaroli si muoveva  senza l’idea della colpa, il passato lo ricordava come una prigione da cui lui era uscito, un dopoguerra che uccideva la dignità di tutti nella miseria e nell’accettazione passiva. Ma lui no, lui aveva reagito, era uscito da quella prigione senza sbarre per conoscere quella vera, quella degli uomini condannati all’ergastolo. Aveva pagato per il suo orgoglio. Il tempo, si sa, riesce a coprire anche i peccati, li sa ridurre a finzioni estemporanee coprendoli col pudore, li affida al presente perché li superi con la libertà di nuovi orizzonti. Anche col pennello o con la penna, come nel suo e nel mio caso. Io ero giovane e la mia fantasia correva veloce reinterpretando il passato, i morti erano cancellati dai vivi che incrociavo sulla mia strada, alla televisione e al cinema, realtà instabili per cui il bandito dimenticato era sostituito da nuovi protagonisti lontani da lui e da me. Io e lui eravamo a tratti attori sconosciuti di un film in bianco e nero dei primi anni ’50, un film non più presente neanche nelle sale d’essai come il Rialto o il cinema Roma lì vicino in via Fondazza, impresentabili perché la morte contava ogni giorno nuovi corpi e quelli vecchi scomparivano nel nulla. La vita li aveva resi invisibili, troppo niente e troppo vuoto da immaginare. Paolo Casaroli aveva fatto il suo tempo.
Intuivo che  in lui veniva ancora negata la colpa, forse esistita solo per un attimo d’immobilità prigioniera, prima che il movimento ne  disperdesse le tracce negli spazi impossibili del carcere. La vita lì dentro era continuata e aveva aggiunto sentimenti nuovi ai vecchi, purificando il presente dalle contaminazioni del passato. La banda Casaroli era una creatura estinta da tanto tempo, un mostro senza testa ignorata da Jung, sepolta tra le miserie e le violenze del dopoguerra. Rimanevano dolore fisico e consapevolezza superiore, raffiche di parole, proiettili a salve sul mondo conoscibile che non potevano impaurire nessuno. Il film con le riprese di Via Santo Stefano forse interessava ancora qualche giornalista impegnato con fantasmi invisibili ma le morti di oggi, le uccisioni delle Brigate Rosse o i delitti politici in tutto il mondo avevano spostato altrove l’attenzione, le armi usate dal Casaroli incolpevoli in mancanza delle vittime cancellate insieme al ricordo. Ora lui impugnava un pennello o anche un pennino alle volte, i capelli grigi un po’ lunghi e la pancetta che spuntava sotto la camicia, un’ombra irreale troppo lontana dal giovane Renato Salvatori del film, attore bello, feroce e agile. Libero. Guardando la litografia del Cristo in croce che Paolo mi aveva regalato, potevo solo scorgere i segni di un’arte strana e sofferta, quasi uno slittamento del tempo che aveva fatto diventare Gesù un  acrobata sublime, i chiodi a sospenderlo nel vuoto come un circense in bilico sul baratro. Inerzia e movimento come ossessione, come allora, come sempre nella sua storia e nella mia. Ma ora nessun poliziotto o  vigile a inseguirlo per strada, per quello che riguardava lui, pensavo, solo le sue ossessioni. E le mie. Rompere l’inerzia,  l’ossessione di chi non può far finta di niente.  Il presente di quel disegno e di tutti gli altri visti, tutti con la medesima impronta di crocifissione senza colpa e tanto dolore, mi affascinava per i corpi e le menti che l’agitavano dentro. Nei corpi dei quadri potevo trovare l’uomo vivo, un Paolo Casaroli vero, dolore e delirio  senza la faccia insolente di Renato Salvatori.


Vedi Vincenzo, è una visione nuova, decisiva, che nessuno ha ancora capito a pieno! La storia dell’Uomo è tutta lì, nella battaglia continua, interminabile, tra introverso ed estroverso … tutto è qui, questa teoria spiega tutto! Ecco, dobbiamo fare qualcosa insieme, buttare giù l’idea su carta … tu che sei bravo a scrivere. Me lo ripeteva ogni volta che ero davanti a lui. Io ci pensavo sopra. Eh, non è facile, Paolo, da dove inizio? Come faccio a spiegarlo? Con i  tipi psicologici? E la società e i suoi fattori?   Sembrava che non mi ascoltasse, però. Sì, è una cosa grandiosa, diceva, vedrai  una volta entrati tutto diventa chiaro, tutto si spiega  naturalmente! Quando inizi  tutto diventa facile, tutto si spiega.
Non ero convinto. Non glielo dissi mai. Andammo avanti mesi a parlare di questo, sviscerando o forse girando sempre intorno allo stesso concetto, adesso non saprei più dire. Allora sembrava necessario approfondire. La vita in carcere per tanti anni l’aveva potuto sopportare solo credendo in questo, formulando una visione unica e vorace dell’Uomo e della Storia. Aveva letto e studiato per aggiungere elementi alla sua cosmogonia storica, un disegno lineare e mobile in cui le forze dell’universo s’erano compiutamente espresse e materializzate nei due tipi psicologici, il loro movimento unica ragione per tutto il resto.

Poi, improvvisamente, qualcosa cambiò: trovai un lavoro, non c’era più né tempo né energie da dedicare a queste discussioni e al suo progetto. Via San Petronio Vecchio, seppure a poche centinaia di metri da casa mia, sembrò troppo lontana e faticosa da raggiungere. Rimase in me, e credo anche in lui, l’ossessione dell’uomo e delle sue motivazioni, nell’agire e nel pensare: la necessità di capire dove s’incontrano le cose che vanno e quelle che non vanno, nel genere umano, soprattutto queste. Alcuni anni dopo, quando appresi dai giornali e dalla televisione che era morto, incasellai quella perdita nelle altre che già avevano segnato il mutare violento di affetti e certezze nella mia vita quotidiana. Aumentò il senso di solitudine e quello di un destino lontano, la percezione di uno spazio- tempo troppo vasto per essere compreso. Del resto, finché Paolo era stato vivo, non avevo neanche capito com’era diventato un bandito e cosa aveva provato ammazzando: forse niente, forse solo l’impulso a sopravvivere anche a costo di uccidere.  Forse il momento in cui aveva premuto il grilletto non era stato diverso da quello in cui aveva impugnato il pennello, tanti anni dopo: mosso dall’istinto di trasformare la sua vita con un atto estremo e sublime, incurante delle conseguenze per se stesso e per gli altri. Per liberare il significato del movimento. Via San Petronio Vecchio e Via Santo Stefano conservavano la verità,  testimoni  muti di allora come solo le pietre sanno esserlo. Mentre le percorrevo, persone, vestiti, auto, bus e motorini segnalavano altre presenze, altri corpi, passi e voci. Nessuna geometria della sofferenza, non più.
La guerra con la sua miseria umana era sparita, l’Italia da tempo uscita dal dopoguerra.La ferocia del silenzio che mi aveva colpito all'annuncio della sua scomparsa,  però conservava la traccia di incubi passati. Eppure io non avevo conosciuto la guerra, quella raccontata da mio padre e tanti altri come lui. 

Non ero stato né vittima né artefice di un tempo assassino. Non avevo sparato, e ora mi chiedevo: potrei impugnare un’arma senza nessun cuore dentro la mia mano assassina?


La vetrina buia della bottega chiusa mi rispondeva col suo silenzio, segnalando al mondo di passaggio qui che un altro corpo era stato ingoiato nel  nulla. Un avviso listato a lutto in bianco e nero. Via San Petronio aveva un modo suo di stare nel cuore di Bologna, pensai. Non piangeva inutilmente, la perdita la conosceva da sempre, nella sua geometria antica e irregolare di muri e marciapiedi. Un caos di linee assimilato all'ordine, verità biologica della fine per ogni inizio di vita. Una sola morte non la turbava, era un colpo di pennello su un muro, uno sfregio da cancellare con un altro colpo di mano a ristabilire l’ordine del presente. Il pennello ha un cuore, è una mano senza pistola, non sono la stessa cosa. Potevo cancellare e ricominciare, allora.
Intorno a me, nel rumore solito della vecchia via e nelle espressioni dei volti nuovi, l’angoscia del nulla cedeva il posto alla curiosità. Mi parlava sottovoce, sorniona, di altre possibilità di  vita ancora da scoprire.
                                   


giovedì 24 aprile 2014


Roberto Bolano: le vite replicate e la suggestione della libertà 
 
 “Pochi mesi dopo il suo arrivo al villaggio morì il padre, come se avesse aspettato solo lui per lanciarsi a testa bassa all’altro mondo. (….) Anski sgattaiolò al cimitero  e rimase a lungo accanto alla tomba, pensando a cose vaghe. Di giorno dormiva in soffitta, coperto fino alla testa, nel buio totale (…. ) Si domanda cosa resterà quando l’universo sarà morto e il tempo e lo spazio saranno morti con lui. Zero, nulla. Questa idea, però, lo fa ridere. Dietro ogni risposta si nasconde una domanda, ricorda Anski che dicono i contadini di Kostekino. Dietro ogni risposta inappellabile si nasconde una domanda ancor più complessa. La complessità, tuttavia, lo fa ridere, e a volte sua madre lo sente ridere in soffitta come quando aveva dieci anni. Anski pensa a universi paralleli. In quei giorni Hitler invade la Polonia e inizia la seconda guerra mondiale. Caduta di Varsavia, caduta di Parigi, attacco all’Unione Sovietica. Solo nel disordine siamo concepibili.” *1. Queste parole di 2666, opera sterminata di Roberto Bolano,   trascendono Anski, sono il motore di 2666 e della sua narrativa. Un caos primordiale segna l’uomo e il suo destino e l’autore sposta continuamente i confini alla parola narrativa, ne allarga spazi logici e cronologici dandole nuove prospettive. Con il caos che si sposta, gli scenari dentro 2666 mutano eppure rimangono continui. Dice  Bolano che solo nel disordine siamo concepibili: contenuto e forma del suo narrare, specificità letteraria. Nella sua varietà, insensata prima e consistente poi, la realtà trova nelle parole una sintesi continua, interminabile, soggetta all’instabilità. I personaggi, espressioni viventi del disordine, sono percorsi da un delirio lucido e consapevole. Ci portano lontano, verso territori della mente che sappiamo essere dentro di noi, seppure inventati da Bolano. Anche noi dentro universi paralleli, come Anski ridiamo in soffitta. Complessa e semplice, Santa Teresa è una presenza senza veri confini: luogo privilegiato di 2666, s’estende in spazi reali e immaginari della parola dentro a un sistema di vasi comunicanti, da 2666 ai Dispiaceri del vero poliziotto, opera riassuntiva della volontà dello scrittore. Non solo zona geografica, si spiega come luogo mentale del tempo in cui non vi sono più limiti alla libertà e alla sua durata. Tempo dell’essere. “I suoi passi lo portarono in centro … e poi s’infilò in un quartiere che, malgrado fosse a due isolati dal centro,  riuniva in sé- e mostrava- ogni stigma, ogni segno di povertà, squallore e pericolo. La zona rossa. Quel nome divertiva Amalfitano con un misto di amara tenerezza; anche lui, nel corso della sua vita, aveva conosciuto zone rosse. I quartieri operai, i ‘cordoni industriali’, prima, i luoghi liberati dalla guerriglia, dopo.” *2.
Il presente ha la libertà come unica alternativa a se stessa, la sua durata è pervasiva e tutto può accadere, violenza e crudeltà, eventi contrari al sentire umano e all’intendere civile. Ma è libertà di incontri anomali e manifestazioni impensabili di poesia, scontro di eventi e personaggi  coi canoni della civiltà e del suo progredire. Il caos invade l’ordine. La morte del padre procede nel buio con la sua volontà perfida, imprevedibile nel provocare Anski dopo il suo arrivo al villaggio. Il caos subentra all’ordine a dispetto di aspettative ordinate nel tempo.
109 donne sono assassinate a Santa Teresa,  e le centinaia di pagine di La parte dei delitti danno un senso narrativo alle cronache insistite delle atrocità sostituendo la brutalità all’amore, i dettagli della deturpazione a quelli dell’integrità. “ Alla fine di settembre fu ritrovato il corpo di una bambina di tredici anni, sul versante orientale del colle Estrella. (…..) Era stata violentata ripetute volte  e accoltellata e la morte era attribuibile alla rottura dell’osso ioide. Ma quello che più sorprese i giornalisti era che nessuno reclamasse o riconoscesse  il cadavere. Come se la bambina fosse arrivata a Santa Teresa da sola e vi avesse vissuto in totale invisibilità finché gli assassini non l’avevano notata e uccisa. “ *3  Santa Teresa, cittadina messicana ai confini col Texas che nella realtà si chiama Ciudad Juarez,  è sì luogo infernale, ma anche e con maggiore significato letterario, luogo della libertà dell’uomo nel bene e nel male, rovesciamento di canoni e aspettative umane. Nelle parole di Bolano, a cui era stato chiesto di definire l’Inferno, questo  appare proprio “come Ciudad Juarez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e  della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”. Come infame interpretazione della libertà, Santa Teresa è luogo fondamentale nelle opere di Bolano: presenza di Bene e Male, violenza e poesia, sogno e realtà, immagini e fantasia e tant’altro ancora.  Nel prevalere di regole predatorie della libertà, ne La  parte dei delitti essa è insieme suggestione minuziosa ed esasperazione negativa: brutalità e violenza assassina frantumano corpi e sentimenti privi di difese, li annientano abbandonati a se stessi senza più umanità. La suggestione della libertà comprende in sé il caos primordiale. All’inizio dei Dispiaceri,  la libertà omosessuale costringe Amalfitano in Messico, via dal suo amante, il poeta Padilla, e dalla Spagna. Le speranze di entrambi sono condannate al nuovo ordine spietato della sopravvivenza.  In 2666 Amalfitano deve fare i conti con l’estremo male della libertà: l’amore diventato corruzione, il suo codice erotico tramutato in morte. La figlia Rosa fugge negli Stati Uniti per salvarsi dal sospetto di partecipare agli snuff movies. Il caos prevale sull’ordine delle cose.
Allontanarsi dai canoni correnti è qualità specifica del grande scrittore. Nelle parole di Amalfitano nei Dispiaceri troviamo Bolano stesso. “Alla radice di tutti i miei mali si trova la mia ammirazione per i delinquenti, le puttane, gli squilibrati, si diceva Amalfitano con amarezza. Nell’adolescenza avrei voluto essere ebreo, bolscevico, negro, omosessuale, drogato e mezzo matto, e come se non bastasse monco, ma sono diventato solo un professore di letteratura. Meno male, pensava Amalfitano, che ho potuto leggere migliaia di libri. Meno male che ho conosciuto i  Poeti e che ho letto i Romanzi. (I Poeti, per Amalfitano, erano esseri umani splendenti come un lampo, e i Romanzi, le storie che nascevano dalla fonte del Don Chisciotte). Meno male che ho letto. Meno male che posso ancora leggere, si diceva tra scettico e speranzoso.“ *4

La salvezza è nelle parole dei libri. Sempre Amalfitano, in Chiamate telefoniche racconta una storia che ha sentito raccontare, in cui un coscritto per errore finito in un campo delle SS, scoperto dai russi e scambiato per un collaborazionista, si salva esclamando “cazzo” perché la parola suona come “Kunst” in tedesco, termine che indica l’arte. L’arte e la poesia convivono fortunatamente con la barbarie. Quando è il loro momento sconvolgono i canoni correnti. In una forma provocatoria, il racconto diviene verità in cui tutto è sensato e insensato insieme, indifferente alla morale e al suo equilibrio, tempo che coglie l’umanità nella sua vastità espressiva senza i limiti imposti da canoni morali ed estetici. Prima viene la verità della vita, il tempo e la libertà del caos prima della regola morale. Vorremmo la vittoria del bene, ma come in un sogno o un incubo la vita mette in vetrina se stessa in modo cinico e disincantato, ironico e sprezzante della mediocrità di ogni compromesso, vita libera di pescare nella parola e nel tempo per trovare la realtà umana affrancata dalla norma razionale. “L’insegna, a grandi lettere rosse, annunciava la cantante di rancheras Coral Vidal, una seduta di striptease comunicativo e il famoso mago Alexander. Sotto la pensilina all’ingresso, in un brulichio di gente insonne, vendevano sigarette, droghe, frutta secca, riviste e giornali di Santa Teresa, Città del Messico, California e Texas. Mentre pagava un quotidiano della capitale, me ne dia uno qualunque, aveva detto all’edicolante, mi dia l’ ‘Excélsior’, un bambino gli tirò la manica.” *5  Come Arturo Belano nei Detective selvaggi, Amalfitano scopre il presente  quale replicante della vita sua e di altri, è costretto a trovare un ordine nella vita reinventandosi dentro nuove condizioni, tra passato e presente, memoria e scelta.
Nei Detective selvaggi,  Belano e Ulises Lima sono poeti in cerca di altri poeti, si muovono tra luoghi e persone  senza un delitto o un’indagine reale, lontani dall’essere detective secondo i canoni correnti. Cercano se stessi dentro a un fiume vitale- forse lo stesso di Huckleberry Finn-  nell’avventura tra mille affluenti e rivoli spesso insignificanti. E arrivano al mare. Dentro l'acqua salata della storia, appare la poetessa Cesàrea Tinajero che assume la parte simbolica che avrà Arcimboldi in 2666, poesia e letteratura fuori dai canoni. Ulises Lima e Arturo Belano, come real-visceralisti in cerca di se stessi e della poesia dentro un ordine più vasto, disordinato, attraversano con il lettore un mondo che è reale proprio perché ideale,  un paesaggio in cui i segni dell'intelletto e della poesia vorrebbero sostituire quelli della carne e della violenza. Nella realtà basta che la poesia non sia annullata dalla violenza ma le conviva fortunatamente accanto, come nei passi citati sopra su Amalfitano nei Dispiaceri e in Chiamate telefoniche: quando è il suo momento essa sconvolge i canoni correnti.
Leggendo Terzo Reich mi chiedevo dove volesse arrivare Bolano. Se il gioco del terzo Reich è la metafora di qualcosa, una presenza non casuale della violenza, e l’insistenza sul Bruciato, sulla sua forza bruta e misteriosa un simbolo vivente della Storia con i suoi misfatti.  Se c’è la cosa in sé in lui come in Philip Dick, e quell’uomo tornato bambino davanti a forze oscure è lo stesso nel Terzo Reich come nel Tempo fuor di sesto a cui s’ispira.  Ma in Philip Dick la lucidità della  memoria riporta a galla la verità delle cose, in Bolano no: la suggestione dell’ignoto la suggerisce soltanto, detta le priorità senza mai chiarirsi, prepotente come nella realtà di ciascuno di noi. Disegna sempre nuovi quadri. La ripetizione dello war game spinge Hudo Berger dentro un gioco sconosciuto e alla replica adulta dell’amore per Else, con la rinuncia all’ordine solito della fidanzata. Hudo ne esce sconfitto. Negli scenari sempre nuovi delle simulazioni del gioco, non sa più rispondere da campione. La sua sconfitta significa che la libertà ha un suo codice perfetto, dove prepotenza del gioco e regole impersonali di provenienza oscura ipnotizzano l’uomo e il suo amore. Vittoria del Terzo Reich. Una prepotenza vitale decifrabile come suggestione della libertà, una fuga che porta la persona lontano insieme ai sogni descritti con insistenza da Bolano, ma  senza i poeti protagonisti delle altre opere.  Verità crudele del vivere oltre se stessi, la fuga diviene continua in 2666. “La fuga si trasformava in libertà, anche se la libertà serviva soltanto a continuare a fuggire. Il caos si trasformava in ordine, sia pure a spese di quello che è comunemente noto come senno.*6.  Nuovi confini s’aprono al corpo e alla mente, si abbattono i vincoli. Nella suggestione la libertà si deforma e si amplia,  esorcizza paure e desideri e diventa sogno. Come accade a Molly nel monologo dell’ Ulisse di Joyce, un’esenzione temporanea dalla  prepotenza lascia la vita libera di ripetersi con altra armonia. Ignota. La libertà è replicata in mondi paralleli, eccezioni alla norma. Ecco l’ordine di 2666: solo nel disordine siamo concepibili. A Santa Teresa, in 2666, è questo l’elemento vitale di Amalfitano. Replicando a suo modo Duchamp,  appende a un albero come biancheria da stendere un libro di Dieste, Il testamento geometrico. Per giorni ne contempla il disfacimento e la degenerazione dovute agli agenti esterni. Ammira l’ordine che contiene anche il disordine, la nuova verità dei frammenti: realtà e vita oltre la geometria, l’indescrivibile oltre l’ordine, l’eccezione che mostra l’altra verità del mondo. Il frammento dissennato clona l’avventura umana a contatto con la vita. Amalfitano interroga il replicante di un filosofo “ammalato”, lo scomparso Guyau. E la suggestione della libertà esce dal sogno. Guyau forse gli direbbe: “Sia felice. Viva l’attimo. Sia buono. O il contrario: lei chi è? Cosa ci fa qui? Se ne vada. “*7.  Amalfitano chiede aiuto: non sa cosa è bene. Restare o fuggire. La ricerca di una risposta è il motivo per il 2666 di Bolano, motivo inseguito pagina dopo pagina, con amore. Restare e vivere l’attimo: l’amore di questo s’alimenta, ma anche l’odio. Andarsene: del movimento l’ordine creativo s’alimenta, come pure la libertà. Fuggire con una puttana non assassina come quella dei detective selvaggi,  sospesa tra brutalità e poesia. Diversamente umana e perciò più umana. Fuggire dentro Santa Teresa, tra I dispiaceri e i suoi luoghi più umani, capaci di un nuovo ordine per il vero poliziotto. Lì c’è un’isola senza mare in cui poter scoprire la magia, con il suo volto suggestivo.  Lì la voce suggestiva del vecchio mago Alexander indovina le carte estratte dall’ignoto oltre l’ordine apparente: dove si mostra la perdita dell’amore, proprio lì replica attimi d’amore eccezionali e commoventi nascosti dalla vita ordinaria. Nel nuovo ordine è riconosciuto il legame che unisce padri e figli.
“Un’altra carta. E poi un’altra, in un’altra fila, e le carte continuano a formare, annunciate coralmente dagli spettatori, una scala reale di cuori (… ) Nel portafoglio, tra una foto di Rosa a dieci anni e un foglietto ingiallito e stropicciato, trovò la carta. Che carta è, signore? disse il mago, guardandolo fisso (… ) La regina di cuori, rispose Amalfitano. Il mago gli sorrise. Come avrebbe fatto suo padre.”    *8











1.      R. Bolano, 2666- La parte di Arcimboldi- Adelphi 2007-pag.  483
2.       I dispiaceri del vero poliziotto- Adelphi 2011, pag.104
3.      2666- La parte dei delitti, pag. 154
4.   I dispiaceri del vero poliziotto, pag. 119-120
5.   Ibidem, pag.115
6.  2666- La parte di Amalfitano- pag.240
       7Ibidem- - pag. 246

      8.   I dispiaceri del vero poliziotto- pag.114




https://vimeo.com/56910162

Ecco il video della mia presentazione del libro Sancio, io e l'isola di nessuno, a La Regenta, associazione Italo-spagnola di Bologna, nel dicembre 2013.

Qui sotto, riassumo il senso della mia opera, 1a ex aequo al premio nazionale Contemporanea d'autore 2013 di Alessandria, per la categoria saggistica. (Foto)





Nessuno è una presenza universale più grande di Ulisse, di cui è l’alias,  per il rapporto tra parola e tempo reale.  Dominio della parola nella realtà, Nessuno s’impone come unica realtà temporale, che nasconde l’uomo al mostro dell’annientamento brutale, la morte sotto forma di Polifemo. Alias di Ulisse dentro al cavallo di legno, realtà latente nascosta ai Troiani, è inconscio sopraffattorio, ripreso da Joyce nel monologo di Molly dell’Ulisse.
Dante teme Nessuno, per la sua parola ingannevole alternativa a quella di Dio, alla divinità della Commedia. L’avventura di Ulisse è troppo vicina a quella di Gesù, come lui ipotesi d’uomo che sconfigge tempo e morte. Risurrezione della giustizia. La tensione verso Beatrice va verso la parola di Dio per superare il Nessuno illusorio, mortale. Illuminata dall’amore, ma non profana come in Penelope o in Molly, è lei la strada per il Paradiso. L’amore è lo specchio della conoscenza di Dio, umanità della divina armonia superiore all’uomo stesso.
Come noi, Ulisse ricerca la verità, Fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Ma è alternativo a Gesù, sostituendo a Dio Nessuno,  uomo delle ipotesi ingannevoli che infrangono la sacralità della parola. Con la sola fede dell’intelletto e della parola, illuminata dalla sofferenza e dalla sopravvivenza, investiga la realtà anticipando un giallo o un noir di oggi. Senza Dio, trova la vendetta. L’avventura solitaria di Ulisse, che rende mobili i confini imposti dalla Chiesa al mondo e alla parola, lo condanna all’inferno.
Ma può valere ancora oggi la condanna di Nessuno e del suo inganno nella parola infedele e traditrice? O appartiene solo a Dante e al suo tempo, alla sua parola divina? L’integrità personale e affettiva di Dedalus e Bloom è profana come quella di Ulisse- Nessuno? Nel monologo di Molly solo lei, non loro, vede la necessità di Dio per vincere la paura della morte. È sempre lo stesso il posto che ha la fede, religiosa o ideologica, nella società d’oggi, nell’avventura umana? Vale più di altri motivi, più profani seppure amorosi, come quelli in cui s’identifica l’uomo della città ingannevole, una Dublino che vale ogni altra città?
Cinque secoli prima di Joyce, quella amata da Don Chisciotte è la parola nota a tutti, invenzione dell’unica realtà che conta, isola di salvezza per tutti e per nessuno. Dimensione creativa e superiore dell’uomo incarnata dai cavalieri erranti.
Nessuno è Don Chisciotte che lascia il paese natio, la vita passata e la sua stessa identità, creando un mondo virtuale che risuscita la parola dei cavalieri erranti. La parola immaginaria lo rende Nessuno per gli altri, abitante virtuale che non sa di esserlo e vive una parola che crede nota a tutti,  mentre lo è solo per lui, uomo solo, unico nella finzione, nella Parola inventata per l’avventura. Con Don Chisciotte, Sancio divide l’essere Nessuno nella fedeltà alla parola delirante che rende mobile la realtà, estesa all’immaginazione fino alla promessa dell’isola di cui sarà il Governatore. Sancio accoglie Nessuno in sé, nella parola intesa come delirio d’onnipotenza.
La distanza ironica di Cervantes non diminuisce la verità della loro ricerca del mondo dentro la parola. Demistifica i cavalieri erranti, la loro parola deprivante del  significato di realtà, ma le contrappone l’unione tra realtà e fantasia in una parola più umana e credibile, in cui vita e morte appartengono al sentimento. Ricerca moderna: realtà e immaginazione non debbono contrapporsi artificiosamente, ma saldarsi nella parola naturalmente. Come  Sancio, e tutti noi, deve sopravvivere al delirio della parola di altri abbracciando realtà e finzione.
In Sanc-io abbraccio il mio io e l’isola promessa. Con lui la mia vendetta poetica rende il delirio consapevole, fattore di sopravvivenza. Col delirio consapevole arriviamo al tempo di Nessuno: se Nessuno è presente dopo Ulisse, è possibile che in tempi e contesti a noi più vicini la sua parola sia realtà unica e superiore, forza travolgente che unisce sempre l’immaginazione all’evidenza? Si può dire, ora come ai tempi di Omero, Nessuno è vivo nella realtà quotidiana? La parola nota a tutti di Joyce è la stessa di Ulisse che si proclama Nessuno?
Nella sua metamorfosi in scarafaggio, la parola esce da Gregor Samsa sotto forma di suoni strozzati e mostruosi, orridi per i suoi cari: Gregor è senza gola umana. Perciò l’impotenza che ne deriva si contrappone all’assenza di parole dentro al cavallo di Troia, a quella di Nessuno davanti a Polifemo. Senza gola, Gregor muore vittima del silenzio forzato della sua metamorfosi: la sua voce non può articolare parole comprensibili agli altri, mostro la cui parola cade nel nulla.
In Pirandello, la realtà della parola identifica il protagonista in modo diverso a seconda di chi sia il parlante: è Uno, ma anche nessuno e centomila. In qualità di nessuno assume volti e nomi diversi in funzione dei diversi punti di vista. Gengè, o Vitangelo Moscarda, ma comunque reale e immaginario insieme. Nessuno, appunto, o Don Chisciotte. Lo specchio della parola è mutevole, ma comunque reale: come Nessuno. Centomila e Nessuno sono gli attributi che la parola manifesta nell’interagire delle persone, fondendo realtà e immaginazione.
In Joyce, Nessuno è un Bloom che vaga nella sua Dublino acquatica. Vaga in cerca di Molly, la donna amata che l’ha tradito.  La parola narrativa deve ricuperargli la sua identità andando oltre il tradimento. Nel finale del monologo della sua Molly, lei dice all’amore per l’uomo che ha ingannato. Con la parola “sì”, il finale poetico riscatta una realtà amorosa che ondeggiava nel tempo e nel sospetto, lontana dagli affetti come Ulisse lontano da Itaca per troppi anni. La parola è scelta di vita oltre il possibile della banalità evidente, come Ulisse fuoriesce dal silenzio del grande cavallo imponendo la realtà di Nessuno: l’uomo trova se stesso nel tempo creato dalla parola. Io stesso mi accorgo di essere Nessuno, avvicinatomi alla realtà dei grandi personaggi letterari di ieri e di oggi. Da quando lo sono? Da quando non la fede, ma la parola profana, è lo specchio dell’uomo di Joyce e il mio personale?
L’isola di Nessuno per me è la letteratura stessa, il luogo e il tempo in cui la parola diviene realtà umana a tutti gli effetti. È la parola nota a tutti di Joyce. Realtà e immaginazione, verità e menzogna, certezza e dubbio, amore e morte, sogno ed evidenza, promessa e illusione, delirio e consapevolezza. Debolezza umana. Unità o divisione, identità o presenza del sosia, doppelganger. Volontà esterna del mondo.
     
L’opera letteraria, come la vita,  è unica e irripetibile per Cervantes, gioco originale della parola e momento d’interazione personale. Come in Kafka, come in Cervantes, uomo reale e uomo della finzione raggiungono la perfezione vitale nel gioco della parola con le identità umane. La parola ha l’isola di Nessuno come luogo e tempo di questa originalità. L’invenzione di Nessuno per Ulisse, come quella di Don Chisciotte per Chisciano il Buono o lo scarafaggio per Gregor Samsa, è una nuova identità dentro questa isola: luogo letterario per eccellenza in cui la parola si manifesta nelle sue potenzialità virtuali.
Luogo specifico accennato da Milan Kundera in L’arte del romanzo, in cui è possibile una storia nuova della letteratura come realtà contestuale della parola,  i cui confini sono mobili, pena la perdita di vitalità, perfetti perché simulati. La fine del Don Chisciotte è esemplare a tal riguardo, come la morte di Ettore nell’Iliade.
Dopo la loro morte, la vita virtuale della parola prosegue come la vita di Nessuno nelle voci dei Ciclopi. Il testo è divenuto contesto virtualmente presente. La parola identità. La realtà virtuale esiste da sempre: è la parola di Nessuno, realtà del pensiero indotta dalla nuova identità possibile nella parola.

Così rivivono i cavalieri erranti, e rimane vivo Nessuno dopo aver sconfitto Polifemo e i Troiani ai tempi di Omero, realtà virtuale anche di oggi. Nella sua isola, si sommano realtà e invenzione, parola e delirio, identità presenti o solo possibili, sempre con lo stesso valore ed efficacia.
La tecnologia in 3D rende viva davanti a noi l’identità possibile. Siamo nuovi Nessuno davanti ai Ciclopi, ma con ben altro che il solo suono della voce a disposizione dell’immaginazione e del pensiero, per realizzare la nostra dimensione virtuale. La parola rimane un punto fermo colla sua forza inoppugnabile, sentimento e volontà vitale, con un tempo suo, interiore, non solo cronologia esterna del nostro vivere. La parola- identità è presenza di base che rende possibili altre realtà virtuali, inferiori a lei nell’ordine e nel caos delle cose, come il bambino che inizia a parlare, dicendo mamma e papà, rimasto dentro tutti noi come nuova realtà nel caos vitale.


Verità umana, il cui mistero è un interrogativo aperto sulla forza della parola e la sua dimensione virtuale. Asserzione sul tempo e sull’uomo, sulla sua vita e la sua morte. Distinzione tra Arte e Scienza in Pirandello, o  Parola nota a tutti di Joyce. Il testo è contesto, oggi più che mai, la parola letteraria crea tempo ora come ai tempi di Omero, ma con una comunicazione diffusa in tempo reale e tridimensionale.

mercoledì 23 aprile 2014

DON CHISCIOTTE
di Miguel Cervantes di Saavedra


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chisc168.gif (104370 byte)CAPITOLO XLI
VENUTA DI CLAVILEGNO E FINE DELLA PRESENTE PROLUNGATA VENTURA.

La notte arrivò, e con la notte il punto determinato per la venuta del famoso cavallo Clavilegno, la cui tardanza cominciava ad inquietare don Chisciotte, sembrandogli che indugiando Malambruno a mandarlo, o non foss'egli il cavaliere cui riserbata era quella ventura, o non osasse l'incantatore di venire seco lui a conflitto. Ma ecco ch'entrarono d'improvviso in giardino quattro Satiri vestiti tutti di verd'ellera, recando sugli omeri il gran cavallo di legno. Lo posero a terra, e disse uno di questi Satiri:
— Chi non si lascia atterrire dai cimenti monti su questa macchina.
— Io non vi monto, disse Sancio, perché ho paura, e perché non sono cavaliere.
Continuò il Satiro:
— Se il cavaliere errante ha uno scudiere al suo servigio, monti costui e si fidi del valoroso Malambruno, che se non resterà ferito dalla sua propria spada, non avrà offesa da verun altro acciaro o da verun'altra mal'arte. Egli non ha a fare che torcere il bischero che sta qua sopra il collo, e volerà per l'aria fino dove Malabruno lo sta attendendo; ma perché l'altezza e la sublimità del cammino non gli producano vertigini, bisognerà tener bendati gli occhi, finché annitrirà il destriere, il che sarà segno di aver raggiunto la meta del viaggio.»
Detto ciò e lasciato ivi Clavilegno, con bella grazia tornarono i Satiri per dove erano venuti.
Giunto appena il cavallo, la Trifaldi, quasi con le lagrime agli occhi, disse a don Chisciotte:
— Valoroso cavaliere, le promesse di Malambruno si sono avverate; ecco qui il cavallo; crescono le nostre barbe, ad ognuna di noi, e per ogni pelo di esse, siamo a supplicarti che tu ce le rada e cimi, null'altro restando a tal fine se non che tu salga col tuo scudiere, e dia felice cominciamento al nuovo viaggio.
— Lo farò di buonissimo grado, disse don Chisciotte, e della migliore intenzione, o donna Trifaldi, senza andarmene a cercare guanciale, e senza mettermi sproni per non frapporre ritardi: tanto è il desiderio mio di vedere voi o signora e tutte le vostre matrone rase pulite.
— Ma non lo farò io, disse Sancio, né di buona né di cattiva voglia in modo alcuno e se così è che questa rasura non si possa fare senza che monti in groppa lo scudiere, il mio padrone ne cerchi un altro che lo accompagni, ovvero trovino queste signore altra maniera di nettarsi il muso: ché io non sono già uno stregone da pigliarmi il gusto di andare per aria. E che direbbero gl'isolani miei sudditi quando sapessero che il loro governatore se ne va passeggiando per i venti? E ci è di più, che essendovi di qua a Candaia tremila leghe, se il cavallo si stanca, ovvero se il gigante si adira, noi tarderemo a tornare una mezza dozzina di anni, e non ci saranno più isole o isoli al mondo che mi conoscano. E poiché si suol dire che il pericolo sta nella tardanza: e quando ti dieno la vacchetta provvediti di una funicella, mi perdonino le barbe di queste signore, che bene sta san Pietro in Roma, e voglio dire che io sto bene in questa casa dove mi fanno mille carezze, e dove aspetto la provvidenza promessami dal padrone di diventar finalmente governatore.»
Disse allora il duca:
— Amico Sancio, l'isola che vi ho promessa, non è mobile, né fuggitiva, ed anzi ha radici sì profonde che giungono negli abissi della terra, né potrebbero essere sbarbate né sradicate per piccole strappatelle; e poiché vi è noto che io so non potere darsi officio di maggiore importanza di questo, e che non deve concedersi senza avervi un qualche guadagno, così per la mia ricompensa io mi contento di conferirvi il governo a patto solo che andiate col vostro signor don Chisciotte, a dar fine e compimento a questa memoranda ventura, e che ritorniate su Clavilegno con la celerità che può promettersi dalla sua leggerezza. Se per avversa fortuna doveste anche tornare a piedi, come pellegrino di albergo in albergo, e di osteria in osteria, troverete sempre al ritorno vostro l'isola dove la lasciate, e tutti i vostri isolani collo stesso desiderio che sempre hanno avuto di ricevervi per loro governatore. Sarà immutabile il voler mio, né mettete in dubbio, signor Sancio, questa verità, ché ciò sarebbe fare un torto evidente al desiderio che nutro di farvi piacere.
— Basta, basta, disse Sancio: io sono un povero scudiere, né posso sostentare il peso di tante cortesie: monti pur su il mio padrone, mi bendino gli occhi, mi raccomandino a Dio, e mi dicano solo se quando andremo per quelle altitudini, mi sarà permesso d'invocare nostro Signore e gli angeli benedetti affinché mi aiutino.»
Rispose la Trifaldi:
— Ben potrete, o Sancio, raccomandarvi a Dio, o chi più vi piaccia, mentre Malambruno, tuttoché incantatore, è cristiano, e con molta sagacità e avvedutezza eseguisce i suoi incantesimi, né cozza con chicchessia.
— Orsù dunque, soggiunse Sancio, mi aiuti Iddio e la Madonna di Gaeta.
— Dalla memoranda ventura del gualchiere, in qua, disse don Chisciotte non ho più veduto Sancio compreso da sì grande spavento come lo è adesso; e se io badassi, come altri, ai mali augurii, la pusillanimità sua mi produrrebbe qualche apprensione: ma accostati a me, o Sancio, che con permissione di questi signori voglio dirti due parole a quattr'occhi.»
Tirato Sancio da parte tra certi alberi del giardino, e pigliategli ambe le mani, gli disse:
— Tu vedi, fratello Sancio, a qual lungo viaggio stiamo per accingerci, e Dio solo sa quando torneremo dall'averlo compito, e quali cure e incontri possiamo avere nelle nostre imprese, e però io vorrei che tu ti ritirassi nella tua stanza, come in aria d'andartene ad apprestare qualche cosa necessaria pel viaggio, e in un batter di occhio ti dessi a conto delle tremila e trecento frustate alle quali obbligato ti sei, cinquecento sole, che quando sono date non vi si pensa più, e il cominciare le cose è un averle quasi mezzo finite.
— Vossignoria è diventato matto? rispose Sancio: questo è come quelli che dicono: vedi che ho fretta, e mi comandi adagio? Ora che devo andarmi a sedere sopra un pezzo di tavola rasa pretenderebbe vossignoria che mi flagellassi? In verità ch'ella esce del seminato: andiamo a radere queste matrone, e da quello che sono prometto che al mio ritorno mi darò tutta la premura di soddisfare al mio obbligo in modo che vossignoria resterà pienamente contento; e non parliamo altro.»
Rispose don Chisciotte:
— Or via sopra questa tua promessa, Sancio mio galante, io parto consolato ma tengo fermo che la manterrai; perché alla fin fine, benché tu sia sciocco, ti conobbi sempre veridico.
— Io non sono verde ma bruno, disse Sancio; ma quand'anche fossi mischio, manterrei la mia parola.»
Con questo tornarono, e si misero in punto di salire su Clavilegno. Stando per montarvi, disse don Chisciotte:
— Sancio bendati e monta su, che chi da sì longinqui paesi ci manda a chiamare, non può volerci trarre a nessun mal passo per la poca gloria che potrebbe ridondare nell'ingannare chi vive in fede; ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest'alta e nuova impresa.
— Andiamo, signore, disse Sancio, che le barbe e le lagrime di queste donne le tengo conficcate nel cuore, né mangerò boccone che mi faccia pro se io non le veda ritornate ad esser nette e lisce. Monti prima vossignoria, e si bendi, perché è ben naturale che se io ho da mettermi in groppa, monti prima chi si ha da metter davanti.
— È vero, è vero, disse don Chisciotte, e tratto un fazzoletto di tasca, disse alla Trifaldi che gli bendasse gli occhi a dovere; e dopo ch'ella ebbe ciò fatto, egli li scoperse di nuovo, e disse:
— Se male non mi ricordo, io lessi in Virgilio che quello del Palladio di Troia, che fu un cavallo di legno offerto dai Greci alla diva Pallade, era pregno di cavalieri erranti, che poi furono la totale distruzione di Troia, ond'è che sarebbe ben fatto vedere prima quello che Clavilegno ha nel suo ventre.
— Non occorre, disse la Trifaldi; sono io che fo guarentigia, sono inutili le diligenze, mentr'io so bene che Malambruno nulla cova di malizioso, e la signoria vostra, signor don Chisciotte, monti pure francamene e senza timore, e a conto mio vada il male che può nascere.»
Parve a don Chisciotte che qualunque cosa aggiungesse intorno alla sicurezza sua personale pregiudicherebbe alla sua bravura, e perciò senz'altro salì sopra Clavilegno, e provò a muovere il bischero, che si girava con facilità; e perché mancavano le staffe e teneva ciondolone le gambe, sembrava una figura di tappeto fiammingo dipinta o tessuta in qualche trionfo romano.
Di mal animo e adagio adagio montò Sancio, raggruzzolandosi il meglio che poté sulle groppe, che trovò dure alquanto, sicché rivoltandosi al duca, il supplicò che se fosse possibile lo accomodassero di qualche cuscino o guanciale, se bene fosse tolto dallo strato della signora duchessa o dal letto di qualche paggio, mentre la groppa di quel cavallo pareva piuttosto di marmo che di legno. La Trifaldi allora alzò la voce, e disse che nessuna sorta di bardamento o di morbidezza potea Clavilegno soffrire sul dorso, e che questo solo poteva essergli conceduto, di mettersi a sedere come le donne, che a questo modo non sentirebbe tanto incomodo per la durezza.
Sancio così fece e dicendo addio si lasciò bendare gli occhi; ma dopo bendati li tornò anch'egli a scoprire, e dando tenere e piangenti occhiate a tutti quelli che stavano nel giardino, disse che lo aiutassero in quel pericolo con un Pater ed un'Ave perché Iddio desse poi anche loro il ricambio quando si trovassero in simili disastrosi pericoli. Allora disse don Chisciotte:
— E come? sei tu forse, ladrone, sul patibolo o in agonia, che tu abbia ad usare di simiglianti preghiere? Non vedi, creatura codarda e pusillanime, che stai nello stesso sito già occupato dalla bella Magalona, da cui ella scese non per entrare in sepoltura, ma per sedere regina sul trono di Francia, se non mentono le istorie? Ed io, che sto al tuo lato, non posso eguagliarmi al valoroso Pierro, che calcò questo stesso luogo che ora io calco? Cuopriti, cuopriti, animale senza cuore, né far sentire la paura che hai, e per lo meno non manifestarla in presenza mia.
— Dunque, mi bendino gli occhi, rispose Sancio; e poiché non si vuole neppure che mi raccomandi a Dio, né che sia raccomandato da altri, perché non dovrò io temere di essere trascinato in qualche regione di diavoli che ci menino a Peralviglio.»
Si bendarono finalmente ambedue, e sentendosi don Chisciotte che stava come dovea giacere, tastò l'ordigno, e l'ebbe toccato appena, che le matrone e quante erano presenti, alzarono la voce, dicendo:
— Dio ti guidi, valoroso cavaliere: Dio ti accompagni, scudiere intrepido: eccovi per aria, voi la trapassate come saette, già cominciate a sospendere, noi tutti siamo stupefatti; tienti forte, valoroso Sancio, ché tu barelli; guarda di non cascare, che la caduta sarebbe peggiore di quella dell'ardito garzone che volle guidare il carro del sole suo padre.»
Sancio sentì queste parole, e stringendosi bene al suo padrone, e cingendolo colle braccia gli disse:
— Signore, possono asserir costoro che noi montiamo tant'alto, quando sentiamo le parole che ci dicono, e pare che stieno parlando qui accanto a noi?
— Non por mente a questo, disse don Chisciotte, che siccome siffatte cose e questi volamenti vanno fuori del corso naturale, tu vedrai e udirai ciò che brami, anche lontano mille leghe: ma non istringermi tanto, che mi fai cadere, e non so comprendere di che ti turbi e ti spaventi, quand'io potrei giurare che in tutto il tempo di vita mia non ho adoperato cavalcatura di passo più posato, e pare proprio che non ci muoviamo: ora sbandisci la paura, che la cosa va infatti come l'ha da andare, e abbiamo il vento in poppa.
— È verissimo, rispose Sancio, perché da questa parte mi fischia un vento sì gagliardo, che pare che mille mantici mi soffino addosso.»
Ed era così per lo appunto, poiché un paio di grossi mantici andava facendo vento; e sì bene ordita era questa ventura dal duca, dalla duchessa e dal suo maggiordomo, che non mancò nulla a renderla perfetta. Sentendosi dunque don Chisciotte venteggiare addosso, soggiunse:
— Senza dubbio, o Sancio, che noi ci dobbiamo trovare nella seconda regione dell'aria, dove si genera la grandine e la neve; nella terza regione si generano i tuoni, i lampi e le saette, e seguitando di questo passo arriveremo presto presto alla regione del fuoco, né so come regolare questo ordigno, perché non abbiamo a salire in luogo dove potremmo restare abbruciati.»
Intanto con certe stoppe facili ad accendersi ed a smorzarsi, e che stavano attaccate ad una canna, i circostanti andavano loro riscaldando la faccia.
Sancio, che sentì il calore, disse:
— Possa essere ammazzato se non siamo già arrivati nel luogo del fuoco, o molto a quello vicino, perché gran parte della mia barba mi si è abbrustolita, or ora io sto per cavar via questa benda e voglio vedere in che parte ci ritroviamo.
— Non fare questo, rispose don Chisciotte, e tienti a mente il vero successo del dottor Torralva, che fu portato a volo dai diavoli per aria a cavallo d'una canna, e cogli occhi chiusi andò in dodici ore a Roma, smontò a Torre di Nona, ch'è una strada della città, e vide tutto il fracasso, l'assalto e la morte del Borbone, e poi la mattina istessa era di ritorno a Madrid, dove diè conto di quanto aveva veduto, ed egli disse che mentre viaggiava per aria gli comandò il demonio che aprisse gli occhi, che gli aperse, e si vide tanto vicino, a parer suo, al corpo della luna, che poteva pigliarla colle mani, né ebbe mai ardire di guardare in giù perché non gli girasse il capo. Dunque, o Sancio, non occorre che adesso ci scopriamo, mentre darà conto di noi chi ci tiene a suo carico. Noi andiamo già guadagnando, e salendo in alto ci lasceremo cadere poi sul regno di Candaia, come fa l'uccello pellegrino sopra la gazza, che si eleva moltissimo, per indi calarsi e predarla: e poi sebbene ci paia appena mezz'ora che ci partimmo dal giardino, credimi ch'io tengo per fermo che noi abbiamo già fatto uno sterminato viaggio.
— Non so quello ch'e' sia, rispose Sancio; so bene dire che se la signora Magagliana o Magalona si contentò di questa groppa, ella non debb'avere avuto le carni molto tenere.»
Tutti questi discorsi dei due valorosi erano uditi dal duca e dalla duchessa e da quei che in giardino si stavano, e se ne pigliavano straordinario piacere. Volendo poscia dar termine alla strana e bene ordita ventura, attaccarono fuoco colla stoppa alla coda di Clavilegno, e al punto stesso, per essere ripieno il cavallo di schioppetti e saltarelli, saltò all'aria con uno strano fracasso, e diede in terra con don Chisciotte e Sancio mezzo abbrustoliti. In questo frattempo era già sparito dal giardino tutto il barbato squadrone delle matrone colla Trifaldi, e si videro gittate a terra le altre persone, come se fossero svenute. Don Chisciotte e Sancio rivoltaronsi malconci assai, e portando gli occhi in qua e in là, rimasero attoniti nel vedersi nel giardino medesimo da cui erano partiti, e nel trovare ivi stramazzata sì grande quantità di gente. La meraviglia si accrebbe poi molto più quando videro in un lato del giardino, fitta in terra, una lunga lancia: e pendente da essa una liscia e bianca pergamena attaccata a due cordoni di seta verde, in cui, a grandi lettere d'oro, leggevansi le seguenti parole:
«L'inclito cavaliere don Chisciotte della Mancia pose fine compiutamente, col solo tentarla, alla ventura della contessa Trifaldi, chiamata con altro nome la matrona Dolorida. Malambruno si dà per contento e soddisfatto nella pienezza dei suoi desiderî: le barbe delle matrone restano rase, lisce e monde; i re don Claviscio e Antonomasia nel pristino loro stato; ed allorché abbia compimento il vapulo scuderile, vedrassi la bianca colomba libera dai pestiferi girifalchi che la perseguitano, e poserà tra le braccia del suo diletto addormentatore. Comanda il savio Merlino, proto-incantatore degl'incantatori.»
Lette ch'ebbe don Chisciotte le parole della pergamena, chiaramente comprese che parlavano del disincanto di Dulcinea, e rendendo allora mille grazie al cielo, che concesso gli avesse di dar compimento con sì poco periglio ad impresa di tanta importanza, col rendere al primiero colore e carnagione le facce delle venerande matrone, ch'erano di già sparite, recossi dove stavansene simulatamente svenuti il duca e la duchessa, e presa la mano del duca, gli disse:
— Allegramente, signor mio, coraggio, coraggio, mio buon amico; che tutto è niente; compita è già la ventura, senza pregiudizio d'alcuno, come chiaramente si conosce dallo scritto ch'è in questo cartello.»
Il duca a poco per volta, e come chi da profondo sonno si desta, cominciò a tornare in sé, e lo stesso fu della duchessa e di quanti altri stavano in quel giardino sdraiati, e con tali apparenze di maraviglia e di spavento, che poteva quasi credersi che fosse loro avvenuto davvero, ciò che seppero colorire con sì destra finzione.
Lesse il duca il cartello cogli occhi socchiusi, e poi a braccia aperte strinse don Chisciotte, professando essere egli il più degno cavaliere che visto si fosse nei passati secoli. Andava Sancio ricercando cogli occhi la Dolorida, per vedere quale fosse il suo viso senza la barba, e se fosse sì bella senz'essa, come promettevano il suo vago portamento e la disposizione della persona, ma gli fu detto che quando Clavilegno cadde ardendo per l'aria, e diede in terra, tutto lo squadrone delle matrone era sparito con la Trifaldi, già tutte rase affatto e senza peli.
Dimandò la duchessa a Sancio come l'avesse passata in sì lungo viaggio. Al che rispose egli:
— Io, signora, ho sentito che si andava, a quanto mi ha detto il padrone, e che si volava per la regione del fuoco; io avrei voluto scuoprirmi un poco gli occhi, ma il padrone, a cui ne chiesi licenza, non volle: ma io che mi sento in dosso un non so qual pizzicore di curiosità e la frega di saper quello appunto che mi è proibito, pian piano e senza ch'egli se ne accorgesse, sviai un poco dalla parte del naso la benda che mi copriva, e guardai verso terra. In verità che mi parve tutta insieme poco più piccola di un granello di senapa, e gli uomini che vi camminavano poco più grandi delle nocciuole; dal che si può capire quanto stavamo allora innalzandoci.»
Rispose la duchessa:
— Badate, amico Sancio, a quello che dite, mentre per quanto si suppone, voi non doveste già aver veduta la terra, ma gli uomini che vi stavano sopra; ed è ben evidente che se la terra vi sembrò un granello di senapa, e ogni uomo una nocciuola, un uomo solo doveva, in questo caso, coprire tutta la terra.
— È vero, rispose Sancio; ma ad onta di ciò, la scopersi da un cantoncino, e la vidi tutta intera.
— Considerate, Sancio, replicò la duchessa; che da un cantoncino non si scopre tutto quello che si ha a vedere.»
— Oh io poi non m'intendo, tornò a dir Sancio, di tutte queste guardature; so questo però che sarebbe bene che vossignoria intendesse che se noi volavamo per incantesimo, anche per incantesimo io potei vedere tutta la terra e gli uomini tutti per ogni banda, ch'io o noi li avessimo guardati. Se la signoria vostra non mi crede questo, molto manco crederà poi che, scuoprendomi accanto alle ciglia, io mi trovassi così vicino al cielo, che non correva da me a lui la distanza di un palmo e mezzo, e posso adesso giurare, o signora, che il cielo è grande fuori di misura. L'azzardo volle che noi viaggiassimo dalla parte delle sette capre.
— Delle Pleiadi, disse la duchessa.
— In fede mia, non m'interrompa, replicò Sancio; sappia che al mio paese si chiamano le sette capre, e sino da bambino io era guardiano di esse. Osservando dunque da quella banda, mi venne gran voglia di trattenermi con loro un poco, ma non le vidi: oh se non me la fossi cavata, mi sarebbe parso di scoppiare. Che pensa ella ch'io facessi allora? Senza dire niente ad alcuno, e nemmeno al padrone, pian piano e senza essere sentito, smonto dal Clavilegno e fo la mia conversazione colle capre per quasi tre quarti d'ora, e intanto Clavilegno non si mosse dal suo posto neppure un momento.»
Durante questo discorso di Sancio intorno alle capre, dimandò il duca a don Chisciotte che cosa stesse pensando. Cui questi rispose:
— Siccome tutte queste cose e tutti questi successi escono dall'ordine naturale, non è stupore che Sancio dica quello che dice: quanto a me non mi trovai né in alto né a basso, né ho veduto cielo, né terra, né mare, né arene. Vero è bensì che m'accorsi di passar per la regione dell'aria e di toccare eziandio quella del fuoco tra il cielo della luna e l'ultima regione dell'aria, non potevamo arrivare al cielo dove stanno le sette capre, delle quali Sancio parla, senza restarne bruciati: e poiché non avvampammo, o Sancio mente, oppure Sancio sogna.
— Né mento, né sogno, rispose Sancio: e se non mi si crede, dimandino i contrassegni della tale o tal altra capra, che per tal modo conosceranno se io dico il vero o non lo dico.
— Orsù, Sancio, diteli, replicò la duchessa.
— Sono, rispose Sancio, due verdi, due incarnate, due azzurre ed una cangiante.
— Questa è una razza di capre del tutto nuova, disse il duca: e per la nostra regione della terra non si usano tali coloriti, voglio capre di tali colori.
— La ragione è ben chiara, rispose Sancio, che ci passa gran differenza dalle capre del cielo a quelle della terra.
— Ditemi, o Sancio, soggiunse il duca, vedeste fra quelle capre qualche caprone?
— Signor no, rispos'egli, ma intesi dire che niuno lassù supera i corni della luna.
Bastarono queste domande intorno al viaggio di Sancio, poiché correasi pericolo, altrimenti facendo, ch'egli avesse intenzione di passeggiare per tutti i cieli e di dar conto di quanto lassù si faceva, senza essersi mosso mai dal giardino. In sostanza questo fu il fine della ventura della matrona Dolorida, che somministrò materia di ridere ai duchi, non solo in quel tempo, ma in tutto il corso della loro vita. Sancio poi avrebbe avuto di che raccontare per secoli, se fosse vissuto.
Avvicinatosi don Chisciotte all'orecchio di Sancio, gli disse:
— Sancio, se ti piace che io creda che tu vedesti nel cielo le cose da te narrate, io pretendo che tu debba credere a me tutto quello che ti raccontai di aver veduto nella grotta di Montésino; e non dico altro.»

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martedì 22 aprile 2014

http://www.anobii.com/books/Crisalide/9788861855076/018b3a9fb85a8a5d54/
 un link su anobii del mio primo lbro

Sono arrivato a Cisternino, provincia di Brindisi, paese della mamma. Il nome risale forse al periodo successivo alla guerra di Troia, sembra a causa di un amico di Diomede, l’eroe Sturnoi,  I monaci medievali chiamarono il paese vandalizzato dai Goti Cis-sturnium, al di qua di Sturnium, la vicina Ostuni. Ma i primi abitanti risalgono persino al Paleolitico, cacciatori e raccoglitori di frutti. Sotto il paese la Valle d’Itria è macchiata dal verde degli alberi, il rosso del terreno, il grigio e il bianco di trulli e  case tra cui scorrono vie e viottoli che narrano una leggenda antica del Mediterraneo. Carri, carretti, cavalli e muli servivano agli uomini per trasportare merci e persone. Mia nonna prese la patente intorno ai settant’anni.  Sopra una vecchia Bianchina faceva i pochi chilometri che la portavano dalla villa di campagna alla casa in paese.
     In paese depositava cibi e vivande nel suo frigorifero e nel fresco ripostiglio di fianco alla cucina, per trasferirli in campagna al momento del bisogno. Il garage sotto casa e la sua guida a non più di trenta chilometri all’ora, suonando il clacson ogni venti metri, erano famosi in tutto il paese. L’ammiravano per il suo coraggio senile nonostante lo strombettare fastidioso. Donna Francesca la conoscevano tutti, ecco il bello di una comunità radicata in cognomi che sono sempre quelli: Amati, Ariani, Cenci, D’Errico, Lagravinese, Punzi. Inconfondibili come i nomi preceduti dal Don e Donna.  Don Natale Santoro, mio nonno, si spostava con un sidecar dalla campagna al paese, io facevo a gara coi miei fratelli per stare al suo fianco nella carrozzina. Ci andavamo anche in due da piccoli.
      Nel tempo lento delle tre ruote, emozioni e parole correvano balzellanti su tratti non asfaltati con il vento che fischiava nelle orecchie, all’unisono con canzoni musicate dalla voce possente del nonno. Ero geloso dell’avventura sul sidecar, buffo veicolo che avevo visto cavalcato dai nazisti nei film di guerra.
     Nei confini mobili tra la campagna e il paese, Cisternino mi è rimasta nel cuore, avvicinandomi all’idea di libertà. Dentro la vita, mosso dal racconto.   Perciò sono qui di nuovo, dopo tanti anni. Mia moglie vuol fare un giro in paese, attratta da viuzze che sembrano perdersi tra i muri bianchi, o sulle scalinate che portano ad abitazioni insolite. Lì aleggiano segreti e misteri mai visti, usciti dal nulla come i fumetti e i racconti che leggevo avidamente. Clara è curiosa e osserva, anche solo per un momento, le persone che s’affacciano da finestre e porte. La salutano come se la conoscessero. Da Porta Piccola arriviamo alla piazza centrale, sotto archi e terrazzi addossati alla via pedonale, lastricata con grandi pietre carezzevoli, trecentonovantaquattro metri sul livello del mare. Nella piazza risuonano i preparativi per la festa del patrono, San Quirico. Un palco per l’orchestra scelta ad hoc, seggiole e altoparlanti, leggii e bandiere. Poi una leggera salita ci recapita alla Chiesa Madre. Meravigliosa e magica. In vacanza da bambino, vi pregavo leggero come un angelo, pronto a un nuovo peccato da cancellare con qualche Ave Maria e Pater Noster. Fredde nei bui confessionali, le voci sacre di allora. La nonna è morta con loro, un mese prima dei centouno anni. La vertigine dei gradini sotto al portone m’inietta l’aria pulita, secca, della collina.  Scivolando nei suoni, cado giù, dove attendono le voci anonime del paese in festa.