Cari amici, riporto qui sotto il testo della presentazione del mio saggio- racconto Sancio, io e l'isola di Nessuno in occasione del premio ricevuto ad Alessandria nel maggio 2013 come 1° ex aequo nel Premio Contemporanea d'Autore- Edizione IV- pubblicato anche in e book su Amazon.
Buonasera e grazie per essere qui. Grazie all’avvocato Alessia Baldi per
la sua disponibilità e la sua presenza preziosa accanto a me per questo premio
che mi rende veramente felice. Mi chiamo Vincenzo Bonicelli della Vite, una
firma più lunga non è facile da trovare … Vivo a Bologna, dove ho studiato
ottenendo la Laurea in Scienze Politiche con specializzazione nell’indirizzo
sociologico. Il quarto anno di liceo però l’ha fatto in Oklahoma, vivendo in
una famiglia americana e conseguendo il diploma della High School, che è un
anno più corta del nostro liceo. Era una borsa di studio di quella che ora si
chiama Intercultura e fa anche pubblicità in televisione, allora molto meno
conosciuta e diffusa. Comunque è stata un’esperienza decisiva nella mia vita e
nei miei studi. Lavoro da anni come export manager in una ditta metalmeccanica
e come hobby scrivo, leggo e collaboro ad alcune riviste. Ho pubblicato un
romanzo breve e una raccolta di racconti, oltre a vari racconti su riviste. A
proposito di riviste, curo la sezione Fiction, nella rivista 451 ediz. Italiana
della New Yoork Review of Books, collaboro anche alla rivista on line
Lucidamente e nel numero di maggio anche la rivista letteraria on line Sagarana
ha pubblicato un mio saggio breve su Roberto Bolano.
Roberto Bolano, come sapete, era uno scrittore cileno contemporaneo che
potremmo definire migrante, perché dai 15 anni ha vissuto in Messico e Spagna
per tornare solo brevemente in Cile.
Un Ulisse moderno quasi, con una dichiarata discendenza letteraria da
Cervantes, cose queste due che spiegano una mia predilezione nei suoi confronti. Con Roberto Bolano possiamo introdurre temi e idee del
mio libro Sancio, io e l’isola di Nessuno, dove Ulisse e don Chisciotte sono
protagonisti indiscussi, anche se non i soli..
-Come ti è venuto in mente
questo libro?-
L’idea nacque da una considerazione e da una domanda: la considerazione
che la grande letteratura è liberatoria, libera l’uomo sempre e ovunque, in
epoche diverse e con stili e modi diversi. La domanda che ne consegue: perché
allora non considerare questo fatto come elemento principale nell’analisi
critica della letteratura? Dai miei ricordi scolastici veniva fuori con
evidenza una preoccupazione della critica tradizionale di una collocazione
storica e stilistica dell’opera letteraria, naturalmente con accenni biografici
alla vita dell’autore.
Io sarei partito invece dalla forza della parola in questo processo di liberazione dell’uomo sia nella scrittura che nella lettura, senza
considerare le differenze storiche, stilistiche e biografiche. Avrei considerato in alternativa il dato in comune
della parola liberatoria e della sua forza. Avevo appena scritto alcuni
racconti e mi accingevo a scrivere un romanzo, e mi venivano in mente i romanzi
che avrei voluto prendere come esempio, da Anna Karenina ai Tre Moschettieri,
dai vari Corsari neri o verde al Grande Gatsby e tanti altri. Poi mi venne in
mente il Don Chisciotte di Cervantes, alla sua fissazione sulle parole dei
cavalieri erranti. Pensai che lì l’utopia della parola che può liberarci nella
nostra vita s’era concretizzata
paradossalmente nell’adesione cieca e assurda dell’eroe di Cervantes alla parola dei cavalieri erranti. Siccome stavo rileggendo per
l’ennesima volta i racconti straordinari di Edgar Allan Poe, mi venne la
tentazione di accostare Poe a Don Chisciotte: in ambedue la parola s’associava
alla follia. Due grandissimi esempi letterari mi suggerivano l’associazione
della parola alla follia e alla libertà e al desiderio di averla veramente in
senso totale. L’uomo ha sempre avuto bisogno di libertà assoluta, la narrazione
letteraria mi sembrava in grado di stimolarla con il pensiero e le emozioni
suscitati dalla parola narrativa, poesia inclusa.
Come sei partito in questa analisi, con quale metodo?
Il punto è sempre quello: l’inizio. Da dove bisogna partire per spiegare
o raccontare qualcosa e non perdersi per strada ma arrivare fino alla fine?
Sembra banale dire bisogna partire dall’inizio, ma non lo è. Bisogna definire
il punto di partenza e io avevo tante possibilità davanti. Dovevo dare un
ordine alle cose e pensai che l’ordine storico mi potesse aiutare … Omero
aveva segnato il passaggio dalla parola orale a quella scritta quindi poteva
essere lui il punto di partenza. Il punto di arrivo doveva essere un
contemporaneo o quasi, qualcuno vicino alla nostra sensibilità.
Nel suo Ulisse, Joyce sostiene che
Ulisse è il più grande personaggio letterario di sempre, più grande di Dante,
Don Chisciotte, Amleto o Anna Karenina. Questa affermazione mi colpì.
Ulisse era il punto di arrivo oltre che di partenza, decisi, da Omero
sarei arrivato a Joyce tramite questa grande figura in comune, Ulisse.
Più precisamente, scoprii mentre
scrivevo questo libro, che era Ulisse in veste di Nessuno a interessarmi in
modo particolare e Dedalus con lui.
Ulisse- Nessuno era il trionfo della parola nei tempi
antichi come nel presente. Era il passaggio dalla parola scritta alla
parola nota a tutti, dico “parola nota a tutti” perché queste sono le esatte
parole che usa Joyce nel suo Ulisse facendosi una domanda: qual è la parola
nota a tutti? Mi sembrava una domanda perfettamente in linea con il senso della
mia indagine, la parola come forza liberatoria e contesto vitale, fattore
d’identità e sopravvivenza della letteratura nel tempo.
Dovevo partire dalla parola di
Omero e finire con quella di Joyce.
In che senso Ulisse rappresenta il trionfo della parola?
In Cervantes e Poe, la parola rappresenta sulla pagina la libertà
assoluta e la follia, ma in Omero con Ulisse diventa anche rappresentazione
della genialità, trionfo della parola come realtà significativa e determinante.
La genialità della parola “Nessuno”, il nome che Ulisse da a se stesso
per sconfiggere e deridere Polifemo è evidente. Meno evidente è il fatto che
questo identificarsi nella parola é farla trionfare sulla realtà circostante e
non riguarda solo il racconto omerico e i ciclopi, riguarda tutti noi e la nostra
realtà umana nella nostra storia evolutiva: sia individuale che di gruppo,
perché iniziare a parlare per il bambino vuol dire mettere dei confini al caos,
vuol dire individuare la realtà come strettamente collegata al parlare, al chiedere per sapere e per esprimere il proprio io, all’identificarsi
nell’affetto per la mamma e il papà: dire e scrivere significa specchiarsi e
dare un’immagine di sé agli altri e quindi comunicare in modo sociale per
l’inserimento nel gruppo.
In Nessuno- Ulisse, trovai la vita dell’uomo che si specchia per un
attimo completamente nella parola narrativa, e fa assumere alla parola dei confini
mobili, perché Nessuno si sposta senza
poter essere fermato da Polifemo o da chi per lui. Cioè Nessuno è identità vitale della parola e la parola dà
un corpo alla stessa vita.
E questo come si lega all’analisi che fai nel tuo saggio?
Sin dall’incipit e dalle parole usate come incipit nei grandi classici,
da Tolstoj a Dante o Kafka e Dumas, vado
a cercare un nesso tra lo scrittore e l’uomo, partendo dall’idea che l’incipit può considerarsi
simile all’inizio della vita del bambino quando inizia a parlare facendo
trionfare la sua parola nella realtà. Non è poco. Dire che la parola ha una sua specifica forza espressiva e liberatoria di tipo assoluto
da cui a livello personale tutto inizia ad assumere significato significa
indicare la parola come contesto vitale primario, volontà e sentimento insieme,
e da qui vedere il testo scritto come sviluppo della vita tramite la parola,
una parola diversamente biologica che va oltre i confini di tempo e spazio
sulla pagina. Quindi stili e contesti
storici e culturali apparentemente troppo distanti e diversi possono unirsi nel
segno dei confini mobili della parola narrativa. Così la mia ricerca mi porta a
trovare l’esistenza di Nessuno non solo in Omero e Joyce, ma anche in altri autori e testi. Anche
lì la parola è trionfo della sua realtà nella vita dell’uomo.
Questo significa vedere la
letteratura ruotare intorno alla parola e avere la parola come centro
interpretativo per analizzare opere e stili letterari molto diversi tra loro, e
vuol dire anche vedere i cosiddetti classici in modo nuovo, come ha mi ha fatto
notare Gianluca Morozzi nel leggere il mio libro e presentarlo insieme a me alla libreria Gulliver di Bologna..
La mia linea d’analisi consiste nel constatare la persistenza di
determinate parole sia all’interno di una stessa opera che di opere diverse come
temi vitali e identificare il testo e l’autore rispetto a quelle parole e quei
temi. Così scoprivo che la “dodicesima
aurora “ é la scadenza dell’ira di Achille in modo unico e determinante sia nel
primo che nell’ultimo canto dell’Iliade, quando segna il termine per poter
bruciare il corpo di Ettore senza incorrere nell’ira dell’eroe. All’interno di
opere diverse trovavo anche che il cavallo di legno in cui si nascose Ulisse-
Nessuno era diventato la presenza di Clavilegno nel Don Chisciotte di Cervantes:
in ambedue le opere il cavallo di legno era un modo di superare la realtà con
la fantasia, un caso d’identità che si rivela diversa dalle apparenze perché
riesce a volare nello spazio pur rimanendo attaccata al terreno.
Quindi Cervantes cita Omero?
Sì, si possono leggere al riguardo le parole del Don Chisciotte quando ha
paura di montare su Clavilegno perché si ricorda del cavallo di Troia, citando
proprio Omero.
Però Don Chisciotte e Nessuno-
Ulisse pur essendo in un certo senso vicini nel tuo saggio, nel trionfo della
parola e dell’avventura, sono molto diversi.
Senz’altro. Ulisse è un eroe
moderno nella sua genialità e libertà assoluta da uomo vivo e cosciente. Invece
solo in punto di morte Don Chisciotte si libera e diventa consapevole dell’inganno
della parola. Ulisse- Nessuno è il genio vivente della finzione, conscio
dell’inganno e lì, nell’usarla consapevolmente, è la sua grandezza, non la sua
miseria come vorrebbe Dante, che mette Ulisse all’Inferno come
spregevole mentitore lontano dalla verità e dagli affetti familiari per sua
scelta. Ma Ulisse non si lascia sedurre dal Canto delle Sirene, che è uno dei
temi ricorrenti in modo invisibile nella letteratura. È Don Chisciotte, e non
Ulisse, che inizia volontariamente un viaggio all’insegna dell’autoinganno e della
menzogna, abbandona gli affetti e la casa e convince Sancho a seguirlo
promettendogli un’isola. Per lui e non
per Sancho avviene la seduzione del canto delle sirene, il viaggio verso la
parola dei cavalieri erranti e verso Dulcinea. La morte ne è la naturale
conclusione, la fine della confusione tra la realtà e la finzione. Per
Cervantes la finzione deve sempre essere consapevolezza, come dimostrano
l’ironia del suo romanzo e la presenza di Sancho. Solo con la morte Don
Chisciotte scopre che l’avventura da cavaliere errante è mistificazione della
parola.
Vi leggo ora un estratto del mio libro che parla proprio di questo.
Sin dall’inizio dell’Opera,
la promessa di un’isola di Don Chisciotte per il suo scudiero rende possibile a
quest’ultimo di separare la sua fine da
quella del padrone, così come Cervantes separa l’affetto per la sua opera da quello per il povero
figliastro di cui racconterà le disavventure, distinguendo la sua scelta letteraria da quella stolta della stupidità
che travolge l’anima umana quando non vuole riconoscere l’evidenza delle
cose e la loro separazione dalla finzione artistica.
La finzione
non può non essere anche consapevolezza.
Don Chisciotte e Sancio sono i due volti
complementari di Ulisse legato alle funi dell’albero della sua barca: insieme
ascoltano il canto delle Sirene che proviene da cavalieri erranti e dalla dama
Dulcinea, l’uno nel suo delirio incantato sopra Ronzinante, l’altro nel suo
buon senso sopra l’asino senza pretese. Perduti nella Mancha, sono ancorati nel tempo
dell’esperienza e della leggenda tra ‘parola-realtà’ dell’oggi e
‘parola-finzione’ di passato e futuro, pericoli immaginari del presente,
cavalieri e dame del passato, isole e tesori promessi nel futuro. Tra caos e
ordine del tempo ignoto. Sancio consente la prosecuzione delle avventure
dell’eroico compagno, si propone come fune d’aderenza alla realtà per uno
sconsiderato Ulisse allucinato e vendicativo che vede dovunque nemici e
pericoli da abbattere, tradimenti e trame da scongiurare, onore suo e della sua
dama da salvare.
Don Chisciotte è la vittima designata della falsità
dell’arte e come tale riacquista la sua soggettività intelligente solo quanto
diventa vittima della propria normalità umana, quando si svela l’altro volto
della commedia tragica della sua vita, cioè quello senza maschera, decisivo, di
Chisciano il Buono, al posto del suo sosia cavalleresco. Diventato finalmente saggio, il cavaliere perde la triste
figura, abbandona la sua realtà personale di figura deformata: la trasformazione in persona sincera e consapevole lo fa diventare uno di noi con la sua morte
umana e naturale e ci lascia le emozioni dell’avventura straordinaria della sua
vita, mentre scompare con la sua follia anche l’ironia dell’autore e rimane la
consapevolezza di Cervantes, nascostosi dietro Cide Hamete di Benengeli, che
niente può essere replicato: né la vita, né l’opera d’arte.
Sono uniche e
originali, ambedue.
Perché hai
intitolato il saggio Sancio,io e l’isola di nessuno?
Il
confronto tra Sancho Panza e Don Chisciotte è illuminante perché ci mostra la
coscienza che Sancho ha dell’isola promessagli come un’illusione contagiosa
della parola, cartina tornasole in cui la parola dei cavalieri erranti viene
risuscitata fino a confondere l’arte con la sua imitazione, la vita con la sua
finzione. L’isola inventata da Don Chisciotte è l’isola di nessuno, perché
Nessuno sono i cavalieri erranti, cioè un’invenzione della parola narrativa
come quella di Ulisse davanti a Polifemo. Per me l’isola di Nessuno è
un’invenzione letteraria più forte della realtà stessa che ad essa si sostituisce
per la forza liberatoria della parola narrativa. È volontà della parola
superiore alla realtà. Il mio saggio è scritto anche come un volo letterario
dall’aeroporto di La Parola, proprio sotto casa mia, alla ricerca dell’isola di
Nessuno. Sancio mi ricorda che in questo viaggio c’è il rischio che possa
perdermi per un Canto delle Sirene qualsiasi, che devo essere un Nessuno
consapevole come Ulisse e non inconsapevole come Don Chisciotte.
E Joyce come entra in tutto questo?
Mentre Cervantes, ben prima di Joyce, aveva esaltato
proprio la genialità nell’invenzione del cavallo di legno usato per conquistare
Troia e l’aveva celebrato in Clavilegno, con Joyce Ulisse si libera anche del
bisogno della vendetta violenta per Penelope e diventa uomo che si riscatta nel
flusso libero di coscienza di Molly. Joyce toglie al personaggio di Ulisse il
peso della censura poetica di Dante che l’aveva scaraventato nel suo inferno insieme a
Diomede, vedendolo come eroe infido e menzognero piuttosto che
genio creatore di libertà assoluta e immaginazione vincente nel suo esilio
sofferto. Joyce sa che quello di Ulisse
è un esilio sofferto e non volontario, come per Dante, non è neanche Don
Chisciotte e Joyce gli dà la dignità letteraria di un eroe moderno la cui
lezione continua nel presente.
Io me ne accorgo parlando con Ulisse nel mio
viaggio aereo andata e ritorno da La parola.
Concludo questa presentazione con un estratto del mio testo che chiarisce la modernità di Ulisse.
Ulisse sa essere un eroe moderno, per quanto antico:
il suo tempo mortale è quello di un moderno che sa usare interamente la sua
facoltà di scelta. È uomo integro e spregiudicato. Ma è la sua integrità umana,
non la modernità, a liberarlo dal fardello della emulazione e dalla mancanza di
alternative, dalla rassegnazione e dalla devozione umile. L’integrità
dell’immaginazione.
Ho vinto ancora,
hai visto? – mi sussurra in un orecchio. Ho riscritto il mio destino senza farlo
sapere al mostro, da solo, e in silenzio ho concepito la fuga dentro un nuovo
ordine.
Ho cantato vittoria estraendo il caos dalla parola.
Sì, ordine e
caos di Nessuno. Sotto la pancia di un caprone sono fuggito come Nessuno, ho
sistemato per bene ordine e caos non solo nel pensiero, ma anche nella parola.
Non ho reclamato contro le ingiustizie del mostro, ho capito come potevo
abbatterlo, lui come Troia, e in silenzio ho rotto lo schema di ogni presunta
perfezione ideologica, quella derivante da un’idea fissa applicabile sempre e
comunque. Ho svelato la mancanza di fantasia di chi insegue un’idea fissa. C’è
solo una idea fissa che vale sempre, non quella rumorosa che proclami ad alta
voce e condividi con tutti, ma la vita silenziosa che perdi ogni giorno e da
solo salvi fin che puoi, senza tradire te stesso e la tua identità. Ecco la
vera ideologia del valore. La salvezza e la tua integrità di uomo libero. La
debolezza mortale è anche forza.
Così ho vinto
io. Polifemo era solo un presuntuoso e ha urlato accecato dalla sua stessa
ingenuità, perché non capiva niente di libertà e di salvezza. Pensava che il
suo potere potesse durare per sempre, perché superiore agli altri, un gigante
senza limiti naturali alla sua forza.
Non previde mai
che l’ordine solito potesse cambiare e il caos dal suo controllo
finisse nelle mani di qualcun altro. Io ho vinto di nuovo, avendo in mente come
unico scopo di rimanere uno come sempre. Finsi solo di essere quello che non
volevo e che la sofferenza m’aveva insegnato che potevo diventare in ogni e
qualsiasi momento: nessuno.
Giusto – penso io – non replico niente a Nessuno.
Come potrei? Mi ha appena dato un’indimenticabile lezione di vita. Sto zitto e faccio finta di niente, penso a come
potrò rimanere uno e padroneggiare il caos che mi ridurrebbe a Nessuno, mentre
guardo Ulisse pilotare il mio aereo al posto di comando di Omero,
temporaneamente indisposto.
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