lunedì 21 aprile 2014

 Cari amici, riporto qui sotto il testo della presentazione del mio saggio- racconto Sancio, io e l'isola di Nessuno in occasione del premio ricevuto ad Alessandria nel maggio 2013 come 1° ex aequo nel Premio Contemporanea d'Autore- Edizione IV- pubblicato anche in e book su Amazon.

Buonasera e grazie per essere qui. Grazie all’avvocato Alessia Baldi per la sua disponibilità e la sua presenza preziosa accanto a me per questo premio che mi rende veramente felice. Mi chiamo Vincenzo Bonicelli della Vite, una firma più lunga non è facile da trovare … Vivo a Bologna, dove ho studiato ottenendo la Laurea in Scienze Politiche con specializzazione nell’indirizzo sociologico. Il quarto anno di liceo però l’ha fatto in Oklahoma, vivendo in una famiglia americana e conseguendo il diploma della High School, che è un anno più corta del nostro liceo. Era una borsa di studio di quella che ora si chiama Intercultura e fa anche pubblicità in televisione, allora molto meno conosciuta e diffusa. Comunque è stata un’esperienza decisiva nella mia vita e nei miei studi. Lavoro da anni come export manager in una ditta metalmeccanica e come hobby scrivo, leggo e collaboro ad alcune riviste. Ho pubblicato un romanzo breve e una raccolta di racconti, oltre a vari racconti su riviste. A proposito di riviste, curo la sezione Fiction, nella rivista 451 ediz. Italiana della New Yoork Review of Books, collaboro anche alla rivista on line Lucidamente e nel numero di maggio anche la rivista letteraria on line Sagarana ha pubblicato un mio saggio breve su Roberto Bolano.
Roberto Bolano, come sapete, era uno scrittore cileno contemporaneo che potremmo definire migrante, perché dai 15 anni ha vissuto in Messico e Spagna per tornare solo brevemente in Cile.
Un Ulisse moderno quasi, con una dichiarata discendenza letteraria da Cervantes, cose queste due che spiegano una mia predilezione nei suoi confronti. Con Roberto Bolano possiamo introdurre temi e idee del mio libro Sancio, io e l’isola di Nessuno, dove Ulisse e don Chisciotte sono protagonisti indiscussi, anche se non i soli..


-Come ti è venuto in mente questo libro?-
L’idea nacque da una considerazione e da una domanda: la considerazione che la grande letteratura è liberatoria, libera l’uomo sempre e ovunque, in epoche diverse e con stili e modi diversi. La domanda che ne consegue: perché allora non considerare questo fatto come elemento principale nell’analisi critica della letteratura? Dai miei ricordi scolastici veniva fuori con evidenza una preoccupazione della critica tradizionale di una collocazione storica e stilistica dell’opera letteraria, naturalmente con accenni biografici alla vita dell’autore.
Io sarei partito invece dalla forza della parola in questo processo di liberazione dell’uomo sia nella scrittura che nella lettura, senza considerare le differenze storiche, stilistiche e biografiche. Avrei  considerato in alternativa il dato in comune della parola liberatoria e della sua forza. Avevo appena scritto alcuni racconti e mi accingevo a scrivere un romanzo, e mi venivano in mente i romanzi che avrei voluto prendere come esempio, da Anna Karenina ai Tre Moschettieri, dai vari Corsari neri o verde al Grande Gatsby e tanti altri. Poi mi venne in mente il Don Chisciotte di Cervantes, alla sua fissazione sulle parole dei cavalieri erranti. Pensai che lì l’utopia della parola che può liberarci nella nostra vita  s’era concretizzata
paradossalmente nell’adesione cieca e assurda dell’eroe di Cervantes alla parola dei cavalieri erranti. Siccome stavo rileggendo per l’ennesima volta i racconti straordinari di Edgar Allan Poe, mi venne la tentazione di accostare Poe a Don Chisciotte: in ambedue la parola s’associava alla follia. Due grandissimi esempi letterari mi suggerivano l’associazione della parola alla follia e alla libertà e al desiderio di averla veramente in senso totale. L’uomo ha sempre avuto bisogno di libertà assoluta, la narrazione letteraria mi sembrava in grado di stimolarla con il pensiero e le emozioni suscitati dalla parola narrativa, poesia inclusa.

Come sei  partito  in questa analisi, con quale metodo?
Il punto è sempre quello: l’inizio. Da dove bisogna partire per spiegare o raccontare qualcosa e non perdersi per strada ma arrivare fino alla fine? Sembra banale dire bisogna partire dall’inizio, ma non lo è. Bisogna definire il punto di partenza e io avevo tante possibilità davanti. Dovevo dare un ordine alle cose e pensai che l’ordine storico mi potesse aiutare …   Omero aveva segnato il passaggio dalla parola orale a quella scritta quindi poteva essere lui il punto di partenza. Il punto di arrivo doveva essere un contemporaneo o quasi, qualcuno vicino alla nostra sensibilità.
Nel suo Ulisse,  Joyce sostiene che Ulisse è il più grande personaggio letterario di sempre, più grande di Dante, Don Chisciotte, Amleto o Anna Karenina. Questa affermazione mi colpì.
Ulisse era il punto di arrivo oltre che di partenza, decisi, da Omero sarei arrivato a Joyce tramite questa grande figura in comune, Ulisse.
 Più precisamente, scoprii mentre scrivevo questo libro, che era Ulisse in veste di Nessuno a interessarmi in modo particolare e  Dedalus con lui. Ulisse- Nessuno era il trionfo della parola nei tempi
antichi come nel presente. Era il passaggio dalla parola scritta alla parola nota a tutti, dico “parola nota a tutti” perché queste sono le esatte parole che usa Joyce nel suo Ulisse facendosi una domanda: qual è la parola nota a tutti? Mi sembrava una domanda perfettamente in linea con il senso della mia indagine, la parola come forza liberatoria e contesto vitale, fattore d’identità e sopravvivenza della letteratura nel tempo.
Dovevo partire dalla parola  di Omero e finire con quella di Joyce.

In che senso Ulisse rappresenta  il trionfo della parola?
 
In Cervantes e Poe, la parola rappresenta sulla pagina la libertà assoluta e la follia, ma in Omero con Ulisse diventa anche rappresentazione della genialità, trionfo della parola come realtà significativa e determinante.
La genialità della parola “Nessuno”, il nome che Ulisse da a se stesso per sconfiggere e deridere Polifemo è evidente. Meno evidente è il fatto che questo identificarsi nella parola é farla trionfare sulla realtà circostante e non riguarda solo il racconto omerico e i ciclopi, riguarda tutti noi e la nostra realtà umana nella nostra storia evolutiva: sia individuale che di gruppo, perché iniziare a parlare per il bambino vuol dire mettere dei confini al caos, vuol dire individuare la realtà come strettamente collegata al parlare, al chiedere per sapere e per esprimere il proprio io, all’identificarsi nell’affetto per la mamma e il papà: dire e scrivere significa specchiarsi e dare un’immagine di sé agli altri e quindi comunicare in modo sociale per l’inserimento nel gruppo.
In Nessuno- Ulisse, trovai la vita dell’uomo che si specchia per un attimo completamente nella parola narrativa, e fa assumere alla parola dei confini mobili, perché  Nessuno si sposta senza poter essere fermato da Polifemo o da chi per lui. Cioè Nessuno è  identità vitale della parola e la parola dà un corpo alla stessa vita.

E questo come si lega all’analisi che fai nel tuo saggio?

Sin dall’incipit e dalle parole usate come incipit nei grandi classici, da Tolstoj a Dante o  Kafka e Dumas, vado a cercare un nesso tra lo scrittore e l’uomo, partendo dall’idea che l’incipit può considerarsi simile all’inizio della vita del bambino quando inizia a parlare facendo trionfare la sua parola nella realtà. Non è poco. Dire che la parola ha una sua specifica forza espressiva e liberatoria di tipo assoluto da cui a livello personale tutto inizia ad assumere significato significa indicare la parola come contesto vitale primario, volontà e sentimento insieme, e da qui vedere il testo scritto come sviluppo della vita tramite la parola, una parola diversamente biologica che va oltre i confini di tempo e spazio sulla pagina.  Quindi stili e contesti storici e culturali apparentemente troppo distanti e diversi possono unirsi nel segno dei confini mobili della parola narrativa. Così la mia ricerca mi porta a trovare l’esistenza di Nessuno non solo in Omero e Joyce, ma anche in altri autori e testi. Anche lì la parola è trionfo della sua realtà nella vita dell’uomo.
 Questo significa vedere la letteratura ruotare intorno alla parola e avere la parola come centro interpretativo per analizzare opere e stili letterari molto diversi tra loro, e vuol dire anche vedere i cosiddetti classici in modo nuovo, come ha mi ha fatto notare Gianluca Morozzi nel leggere il mio libro e presentarlo insieme a me alla libreria Gulliver di Bologna..
La mia linea d’analisi consiste nel constatare la persistenza di determinate parole sia all’interno di una stessa opera che di opere diverse come temi vitali e identificare il testo e l’autore rispetto a quelle parole e quei temi. Così  scoprivo che la “dodicesima aurora “ é la scadenza dell’ira di Achille in modo unico e determinante sia nel primo che nell’ultimo canto dell’Iliade, quando segna il termine per poter bruciare il corpo di Ettore senza incorrere nell’ira dell’eroe. All’interno di opere diverse trovavo anche che il cavallo di legno in cui si nascose Ulisse- Nessuno era diventato la presenza di Clavilegno nel Don Chisciotte di Cervantes: in ambedue le opere il cavallo di legno era un modo di superare la realtà con la fantasia, un caso d’identità che si rivela diversa dalle apparenze perché riesce a volare nello spazio pur rimanendo attaccata al terreno.


Quindi Cervantes cita Omero?
Sì, si possono leggere al riguardo le parole del Don Chisciotte quando ha paura di montare su Clavilegno perché si ricorda del cavallo di Troia, citando proprio Omero.

Però  Don Chisciotte e Nessuno- Ulisse pur essendo in un certo senso vicini nel tuo saggio, nel trionfo della parola e dell’avventura, sono molto diversi.
 Senz’altro. Ulisse è un eroe moderno nella sua genialità e libertà assoluta da uomo vivo e cosciente. Invece solo in punto di morte Don Chisciotte si libera e diventa consapevole dell’inganno della parola. Ulisse- Nessuno è il genio vivente della finzione, conscio dell’inganno e lì, nell’usarla consapevolmente, è la sua grandezza, non la sua miseria come vorrebbe Dante, che mette Ulisse all’Inferno come spregevole mentitore lontano dalla verità e dagli affetti familiari per sua scelta. Ma Ulisse non si lascia sedurre dal Canto delle Sirene, che è uno dei temi ricorrenti in modo invisibile nella letteratura. È Don Chisciotte, e non Ulisse, che inizia volontariamente un viaggio all’insegna dell’autoinganno e della menzogna, abbandona gli affetti e la casa e convince Sancho a seguirlo promettendogli  un’isola. Per lui e non per Sancho avviene la seduzione del canto delle sirene, il viaggio verso la parola dei cavalieri erranti e verso Dulcinea. La morte ne è la naturale conclusione, la fine della confusione tra la realtà e la finzione. Per Cervantes la finzione deve sempre essere consapevolezza, come dimostrano l’ironia del suo romanzo e la presenza di Sancho. Solo con la morte Don Chisciotte scopre che l’avventura da cavaliere errante è mistificazione della parola.
Vi leggo ora un estratto del mio libro che parla proprio di questo.

Sin dall’inizio dell’Opera, la promessa di un’isola di Don Chisciotte per il suo scudiero rende possibile a quest’ultimo di separare la sua fine da quella del padrone, così come Cervantes separa l’affetto per la sua opera da quello per il povero figliastro di cui racconterà le disavventure, distinguendo la sua scelta letteraria da quella stolta della stupidità che travolge l’anima umana quando non vuole riconoscere l’evidenza delle cose e la loro separazione dalla finzione artistica.
   La finzione non può non essere anche consapevolezza.
Don Chisciotte e Sancio sono i due volti complementari di Ulisse legato alle funi dell’albero della sua barca: insieme ascoltano il canto delle Sirene che proviene da cavalieri erranti e dalla dama Dulcinea, l’uno nel suo delirio incantato sopra Ronzinante, l’altro nel suo buon senso sopra l’asino senza pretese.              Perduti nella Mancha, sono ancorati nel tempo dell’esperienza e della leggenda tra ‘parola-realtà’ dell’oggi e ‘parola-finzione’ di passato e futuro, pericoli immaginari del presente, cavalieri e dame del passato, isole e tesori promessi nel futuro. Tra caos e ordine del tempo ignoto. Sancio consente la prosecuzione delle avventure dell’eroico compagno, si propone come fune d’aderenza alla realtà per uno sconsiderato Ulisse allucinato e vendicativo che vede dovunque nemici e pericoli da abbattere, tradimenti e trame da scongiurare, onore suo e della sua dama da salvare.
   Don Chisciotte è la vittima designata della falsità dell’arte e come tale riacquista la sua soggettività intelligente solo quanto diventa vittima della propria normalità umana, quando si svela l’altro volto della commedia tragica della sua vita, cioè quello senza maschera, decisivo, di Chisciano il Buono, al posto del suo sosia cavalleresco. Diventato finalmente saggio, il cavaliere perde la triste figura, abbandona la sua realtà personale di figura deformata: la trasformazione in persona sincera e consapevole lo fa diventare uno di noi con la sua morte umana e naturale e ci lascia le emozioni dell’avventura straordinaria della sua vita, mentre scompare con la sua follia anche l’ironia dell’autore e rimane la consapevolezza di Cervantes, nascostosi dietro Cide Hamete di Benengeli, che niente può essere replicato: né la vita, né l’opera d’arte.
  Sono uniche e originali, ambedue.


Perché hai intitolato il saggio Sancio,io e l’isola di nessuno?

Il confronto tra Sancho Panza e Don Chisciotte è illuminante perché ci mostra la coscienza che Sancho ha dell’isola promessagli come un’illusione contagiosa della parola, cartina tornasole in cui la parola dei cavalieri erranti viene risuscitata fino a confondere l’arte con la sua imitazione, la vita con la sua finzione. L’isola inventata da Don Chisciotte è l’isola di nessuno, perché Nessuno sono i cavalieri erranti, cioè un’invenzione della parola narrativa come quella di Ulisse davanti a Polifemo. Per me l’isola di Nessuno è un’invenzione letteraria più forte della realtà stessa che ad essa si sostituisce per la forza liberatoria della parola narrativa. È volontà della parola superiore alla realtà. Il mio saggio è scritto anche come un volo letterario dall’aeroporto di La Parola, proprio sotto casa mia, alla ricerca dell’isola di Nessuno. Sancio mi ricorda che in questo viaggio c’è il rischio che possa perdermi per un Canto delle Sirene qualsiasi, che devo essere un Nessuno consapevole come Ulisse e non inconsapevole come Don Chisciotte.

E Joyce come entra in tutto questo?
Mentre Cervantes, ben prima di Joyce, aveva esaltato proprio la genialità nell’invenzione del cavallo di legno usato per conquistare Troia e l’aveva celebrato in Clavilegno, con Joyce Ulisse si libera anche del bisogno della vendetta violenta per Penelope e diventa uomo che si riscatta nel flusso libero di coscienza di Molly. Joyce toglie al personaggio di Ulisse il peso della censura poetica di Dante che l’aveva scaraventato nel suo inferno insieme a Diomede, vedendolo come eroe infido e menzognero piuttosto che genio creatore di libertà assoluta e immaginazione vincente nel suo esilio sofferto.  Joyce sa che quello di Ulisse è un esilio sofferto e non volontario, come per Dante, non è neanche Don Chisciotte e Joyce gli dà la dignità letteraria di un eroe moderno la cui lezione continua nel presente. 
Io me ne accorgo parlando con Ulisse nel mio viaggio aereo andata e ritorno da La parola.
 Concludo questa presentazione con un estratto del mio testo che chiarisce la modernità di Ulisse.

Ulisse sa essere un eroe moderno, per quanto antico: il suo tempo mortale è quello di un moderno che sa usare interamente la sua facoltà di scelta. È uomo integro e spregiudicato. Ma è la sua integrità umana, non la modernità, a liberarlo dal fardello della emulazione e dalla mancanza di alternative, dalla rassegnazione e dalla devozione umile. L’integrità dell’immaginazione.
Ho vinto ancora, hai visto? – mi sussurra in un orecchio. Ho riscritto il mio destino senza farlo sapere al mostro, da solo, e in silenzio ho concepito la fuga dentro un nuovo ordine.
 Ho cantato vittoria estraendo il caos dalla parola.
Sì, ordine e caos di Nessuno. Sotto la pancia di un caprone sono fuggito come Nessuno, ho sistemato per bene ordine e caos non solo nel pensiero, ma anche nella parola. Non ho reclamato contro le ingiustizie del mostro, ho capito come potevo abbatterlo, lui come Troia, e in silenzio ho rotto lo schema di ogni presunta perfezione ideologica, quella derivante da un’idea fissa applicabile sempre e comunque. Ho svelato la mancanza di fantasia di chi insegue un’idea fissa. C’è solo una idea fissa che vale sempre, non quella rumorosa che proclami ad alta voce e condividi con tutti, ma la vita silenziosa che perdi ogni giorno e da solo salvi fin che puoi, senza tradire te stesso e la tua identità. Ecco la vera ideologia del valore. La salvezza e la tua integrità di uomo libero. La debolezza mortale è anche forza.
Così ho vinto io. Polifemo era solo un presuntuoso e ha urlato accecato dalla sua stessa ingenuità, perché non capiva niente di libertà e di salvezza. Pensava che il suo potere potesse durare per sempre, perché superiore agli altri, un gigante senza limiti naturali alla sua forza. 
Non previde mai che l’ordine solito potesse cambiare e il caos dal suo controllo finisse nelle mani di qualcun altro. Io ho vinto di nuovo, avendo in mente come unico scopo di rimanere uno come sempre. Finsi solo di essere quello che non volevo e che la sofferenza m’aveva insegnato che potevo diventare in ogni e qualsiasi momento: nessuno.
   Giusto – penso io – non replico niente a Nessuno. 
Come potrei? Mi ha appena dato un’indimenticabile lezione di vita. Sto zitto e faccio finta di niente, penso a come potrò rimanere uno e padroneggiare il caos che mi ridurrebbe a Nessuno, mentre guardo Ulisse pilotare il mio aereo al posto di comando di Omero, temporaneamente indisposto.




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