martedì 17 maggio 2016

Dopo l'anteprima e dopo aver deciso di sintetizzare il titolo dei miei excursus letterari in "I traslocanti", con il narratore che prende armi e bagagli per traslocare in posti diversi da quello solito per mezzo della parola (fa fatica anche lei come i facchini anche se non sembra), trasloco io stesso su due testi non miei per dare inizio al tutto.

"Quella mattina, prima che cominciasse la girandola delle notizie,  Eddie Short Leaf, un tipo che lavorava un pezzo di terra giù all'argine del fiume Missouri e spalava la neve dal marciapiede del campus, mi disse che se tutto quel freddo non finiva presto gli alberi sarebbero dal gelo. Aveva proprio ragione.
  Quella notte mentre mi rigiravo nel letto chiedendomi se avrei fatto prima a a prender sonno o ad esplodere,ebbi appunto l'idea. Un uomo che non riesce a far quadrare le cose può sempre levare le tende. Può mollare tutto cercando di tirarsi fuori dalla solita vita."
(William Least Heat Moon, Strade blu- ed.originale inglese 1983)
"In un luogo della Mancha, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva uno di quei cavalieri con la lancia e un vecchio scudo nel ripostiglio, un magro ronzino e un levriero da caccia. Un piatto con più carne di montone che manzo, carne fredda piccante tutte le sere, lenticchie il venerdì, uova con pancetta il sabato e qualche piccioncino in più la domenica consumavano tre quarti della sua rendita; il resto se ne andava per il copriabito di fine panno nero, i calzoni di velluto per i giorni di festa e le soprascarpe dello stesso tessuto, mentre gli altri giorni della settimana si vestiva di lana grezza, ma della migliore.
(...)  Camminava lentamente mentre il sole sorgeva così velocemente e con tanto calore che sarebbe stato sufficiente a sciogliergli il cervello se l'avesse avuto. ... che egli camminò tutto quel giorno e che all'imbrunire lui e il suo ronzino si ritrovarono stanchi e morti di fame; e che, guardando in ogni direzione, per vedere di scorgere qualche castello o qualche rifugio di pastori dove trovare ristoro e dove poter rimediare ai loro bisogni, vide, non lontano dal sentiero che percorreva, una locanda, e gli sembrò di aver visto una stella che lo guidava non al limitare ma alla rocca della sua salvezza. Accelerò dunque l'andatura e giunse sul calar della notte." (Don Chisciotte della Mancha, 1604, 1a edizione)
" Siccome le cose vanno a modo loro, la mia partenza all'alba divenne man mano una partenza in tarda mattinata e poi una partenza di pomeriggio... abbassai il finestrino per dare un ultimo sguardo all'appartamento che avevo in affitto. Da un olmo ormai morto, usato ogni anno dai falchi per la cova, mi giunge l'acuto pigolio dell'ultima nidiata in attesa di cibo. Accesi il motore.  Fra una stagione,pensai, al mio ritorno- sempre che ci fosse un ritorno- quei piccoli avranno già preso il volo dal nido." (Strade blu, 1983)

Solo qualche annotazione: circa trecentottantotto anni dopo Don Chisciotte, che abbandona tutto in cerca di avventure, un narratore di sangue Sioux prende e "trasloca" per le strade blu degli Stati Uniti, verso l'avventura della strada. Trasloca dalle abitudini, dalla casa e da cibi e vestiti codificati nel tempo. (Anche lui non riusciva a far quadrare le cose.) Dalla notte al giorno. Mi fermo qui. M'interessava accostare mondi, epoche, e scritture così diverse per dare inizio al mio percorso tra i narratori "traslocanti" con le loro parole per allargare i loro e i nostri orizzonti dandoci nuove emozioni con le cose che quadrano in altro modo. A voi altri commenti, a vostro piacimento,. Grazie,
Vincenzo

lunedì 16 maggio 2016

ANTEPRIMA- Il narratore errante e la parola distante

Cosa c'entra Don Chisciottte col viaggiatore Sioux delle Strade blu? E Ulisse con D'Annunzio e i suoi Pastori? Apparentemente niente. Eppure se pensiamo al narratore come a qualcuno che viaggia nello spazio e nel tempo con le parole, e alle sue parole come "distanti" per l'ottica particolare dovuta al percorrere il presente invece che al restarci impigliato ogni giorno, il niente può diventare qualcosa. Qualcosa che lega tra loro opere narrative distanti nel tempo ma vicine nello spazio della parola, uno spazio mobile i cui confini si spostano con il narratore che si muove con le cose e le persone del suo racconto; E a me interessano spunti e prospettive personali nate nel "trasloco", nell'osservare vita e realtà sganciandosi dalla solita vita e dalla solita realtà.
  Così, oltre alle opere citate sopra, accosterò tra loro in successivi post anche Gulliver,  Dedalus, Kerouac Sulla strada e Julio Cortazar sull'Autostrada del Sud, I detective selvaggi di Roberto Bolano e altri.
Basandomi sui testi e nient'altro, cioè facendoli parlare senza mediazioni interpretative.
Naturalmente gli accostamenti sono già suggerimenti per il lettore, da cui mi aspetto giudizi e commenti.
Grazie a chi avrà letto questa anteprima.

Vincenzo

venerdì 10 ottobre 2014

                                                La verità più  vicina 

Un posto assurdo, ecco cos’era. Ipotizzai che qualcuno avesse pensato a uno scherzo di cattivo gusto e scelto me, non so perché, come soggetto perfetto per ridere. Non sapevo niente, le mie erano solo ipotesi. C’ero solo io in una grande piazza deserta, neanche una maschera per nascondermi o  una schifosissima arma per difendermi. Quel sadico aveva scelto un luogo surreale e uno scenario da zombie, eppure io ero vivo senza nessuna lacerazione della pelle o cranio cadaverico. Pensando forse che un pubblico avrebbe gradito gli ampi spazi della piazza deserta, entusiasta della visuale nitida sulla vittima. Una messinscena perfetta con un uomo indifeso, solo davanti al suo carnefice. Solo un piacere sadico e cinico avrebbe potuto giustificare tutto questo,  ma in quel momento non trovavo ragioni valide. Ero troppo spaventato, dimenticato dal mondo come una statua in un quadro di De Chirico. Un abbandono disumano.

    
La piazza era spoglia, e io sembravo ancora più spaesato nel vuoto, un uccello pietrificato con lo sguardo smarrito a inseguire lo stormo numeroso e chiassoso migrato altrove. Senza potermi muovere. Un uomo enorme, un aguzzino muscoloso di quasi due metri, il torso nudo e la testa rasata e corrucciata da grosse pieghe della pelle, sudata e rossa, mi si parò davanti. Aveva un ghigno feroce sul viso. Io lo guardai restando di sasso, inorridito. Ero un naufrago senza barriere coralline a proteggere le mie bracciate nell’acqua trasparente, dovevo cavarmela da solo in una situazione disperata in mezzo ai pescecani, come nell’incubo della notte appena trascorsa eroicamente. Un ignoto spettatore da fuori avrebbe sorriso della mia impotenza, convinto fosse solo una finzione, un film di quelli belli macabri ma chiaramente irreali, con una vittima troppo sfortunata, poveruomo che risolveva la sua esistenza in modo improbabile e anomalo. 
  
Avevo sempre odiato la folla, ma ora avrei dato tutto per trovarmici dentro. Sono solo come mai lo sono stato, fu il mio incoraggiamento, però può darsi non sia terrore il mio e se mi calmo passa tutto. È solo sorpresa e frustrazione perché non posso prevedere cosa succederà. Cosa vuole da me questo mostro? Perché sono stato scelto io come vittima della sua brutalità? Una cosa assurda, nessun cazzo di spiegazione. Potrei fare quello che ragiona e fa un’analisi fredda calcolando le variabili in gioco, quello che pensa di cavarsela colla sola forza del pensiero. Ma la morsa che mi stringeva i fianchi mi disse che non potevo, fui sollevato da terra come un ragazzino di cinquanta chili o quasi. 

Un senso di leggerezza mi pervase tutto il corpo, doloroso ma sorprendente per i miei ottanta chili. Pensai- lo ricordo bene- a una scossa di terremoto molto forte ma non letale. Il dolore più acuto mi trafisse come una fiocina da Moby Dick in un luogo indefinito, eppure io lo collocai in un punto preciso nella mente, avrei potuto disegnarlo come un ceppo rosseggiante dentro al braciere del camino spento. La mente era una distesa di cenere, e il dolore sembrava bruciare estraneo alla fine delle speranze di sopravvivenza. 

Il pubblico applaudiva oltre la soglia dell’indicibile, lo sentii distintamente come fossi al cinema. Ma dove diamine si nascondeva? Non vedevo proprio nessuno. Ero cieco e stupido, solo nel chiedermi perché tanto dolore. Perché proprio io? O il mio dolore (che definirei sublime) era solo lo sviluppo finale di un incubo notturno che pensavo già finito?

Eppure è tutto vero, gridai sopra le lenzuola, il mostro mi sta sbattendo per terra!                   

                                                                                                                                                                                 

mercoledì 7 maggio 2014

Leggendo questo libro mi ponevo domande, come sempre con Bolano, su dove volesse arrivare... perché a un certo punto il gioco del terzo Reich deve essere la metafora di qualcosa. La presenza di Else e del suo marito malato non è casuale nel gioco delle parti: rischio, pericolo, coraggio, incoscienza, consapevolezza devono avere sopra di sé un principio unico ispiratore. Un fine umano. E questa insistenza sul Bruciato, sulla sua forza bruta e misteriosa, quasi un simbolo vivente della Storia con i suoi misfatti... 
Ora, a distanza di mesi, a libro chiuso, sento ancora la suggestione di questo racconto e capisco che le sue onde anomale sono difficilmente classificabili e interpretabili: troppo c'è dentro, troppa la fusione tra normalità e anormalità, ordine e caos, così che non si può accedere al segreto della scrittura di Bolano  nel Terzo Reich. La vita in essa presente mantiene una zona oscura, inquietante. Forse questa suggestione con cui la vita si esprime sulla pagina è l'unica spiegazione. Essa detta le priorità senza mai chiarirsi. Non vuole esprimere una logica apparente. La vita preferisce essere prepotente come nella realtà di ciascuno di noi.
Tempo fuor di sesto, Philip Dick, Editore Fanucci 2012

«Time is out of joint», dice Amleto dopo l’incontro col fantasma del padre a Elsinore. Time out of joint (Tempo fuor di sesto) chiama Philip Dick un suo romanzo del 1959. Il protagonista, Ragle Gumm, è famoso nella sua Old Town: infallibile nel gioco a premi di un quotidiano locale, azzecca sempre la risposta giusta. Ma qualcosa non va. Il nipotino Sammy gli mostra una vecchia rivista con Marylin Monroe. Ragle è incredulo: come gli è sfuggita finora tanta bellezza? Sente che il tempo gli nasconde qualcosa. Chi e perché ha confuso il presente? Nell’elenco telefonico mezzo strappato, trovato tra i rifiuti insieme alla rivista, i numeri che prova a chiamare non esistono: com’è possibile? Ha  quarantasei anni Ragle, ma nell’anima è coetaneo di Sammy, figlio di Margo, sua sorella, e Vic. «Stanno cercando di imbrogliarci», afferma il piccolo di dieci anni.  «È il nemico che è tutto intorno a noi». Ragle è un un bambino cresciuto nelle vesti di adulto, come il Jack delle Confessioni di un artista di merda, opera precedente di Dick.  Marylin è «la risposta al nostro bisogno di una madre», dice. «Aveva un sorriso stupendamente dolce, ingenuo ma intimo.» E Vic a Margo: «Ehi, tesoro … Bill Black (uno strano vicino che li viene sempre a trovare e di cui Ragle seduce la moglie) ne ha sentito parlare». Ragle commenta: «ci sembrava che ci fosse qualcosa che non quadrava».
Marylin Monroe è stata rimossa dal presente da qualcuno. Ragle sospetta che anche le sue vincite non siano innocenti, ma elementi di un unico progetto ignoto. La sua fantasia apre la strada a grandi verità nelle piccole cose e il gioco infantile scopre cosa si nasconde nel gioco adulto. Quando Sammy dice: «Ci stanno puntando in testa le loro pistole imbroglianti», Gumm lo apprezza invece che deriderlo: «È decisamente più avanti di noi». Sfoglia l’elenco telefonico misterioso e  si scontra con l’imbroglio temporale: quei numeri non esistono più. La stessa identità di Gumm è falsa. Il suo numero in elenco è l’unico che non chiama … come spiega Bill Black, «nessuno pensa mai di andare a vedere il proprio numero». Ragle vaga nel buio: per motivi nascosti il tempo è stato rimosso dalla memoria. Una forza penetrata in lui dall’esterno lo manipola come vincitore del gioco. Che gioco non è. Quando la radio a galena del piccolo Sammy capta la conversazione tra misteriosi militari che sembrano minacciarlo, Ragle capisce: deve lasciare la casa della sorella e iniziare il viaggio verso la verità, crescere in fretta, uscendo dall’adolescenza in cui vive e scoprire il mondo adulto. Dick cita Freud, perché qui paranoia ed egocentrismo hanno un senso di realtà possibile e la trama segreta lascia tracce inconsce. L’innocenza del bambino è rivelatrice. Tempo, spazio e persone sono ridefinite da voci mai ascoltate prima. La radio artigianale del bimbo dice che non v’è innocenza nel mondo, ma minacce e nemici con le loro pistole imbroglianti.  Voci confuse dalla radio danno corpo alla realtà nascosta: Ragle Gumm deve giocare e vincere, è l’elemento risolutore involontario, un intruso necessario in una guerra di cui non sa niente. Lo spirito del gioco diventa rumore di wargame. 
La narrazione incalza e inquieta: «la cosa in sé», quella che confonde il tempo, si nasconde tra parole sempre meno incomprensibili. Emerge dalle parole un insieme di immagini inquietanti, voci del silenzio traditore sono svelate dai rumori intercettati. Negli occhi di Ragle confini fisici e psichici saltano, superati dall’ordine logico di tempi e luoghi alieni. Fatti ordinari, resi straordinari dalla mobilità di tutte le certezze, varcano il limite del loro significato: l’alternativa possibile è sovrapposta dalla parola al reale effettivo, la sua «cosità» prevale  su quella delle cose. Nelle parole, l’ordine delle cose certifica il caos ed è il caos che dà ordine alla realtà. Le parole riflettono il caos nascosto dalle apparenze. La nuova identità di Ragle è la spia del tempo fuor di sesto. Ritmo della storia e intreccio dei dialoghi disegnano caratteri nuovi dei personaggi in mezzo a cui Ragle deve scegliere tra chi vorrebbe un «solo mondo felice», un’egemonia che non lascia scelta, e un gruppo «lunatico» che vuole distruggerlo. Quello lunatico «ha ragione»: l’innocenza del mondo è stata violata. Fuggendo da un bar, luogo anch’esso dell’inganno, Gumm riflette: «Troppo rumore. Troppo pieno di gente. Sarà l’ultimo stadio del mio problema mentale. Sospettare della gente … dei gruppi e dell’attività umana, colori, vita, rumore. Perversamente.». Vuole distruggere tutto Ragle. «Cercando rifugio nelle tenebre». La «Dinge an sich» di Kant, la «cosa in sé», è l’alternativa giusta al presente e al suo inganno, anche se distrugge. 
    Nella presentazione al libro Terzo Reich di Roberto Bolano, leggo che gioco e trame nascoste si rifanno a questo Dick. Troverò anche in Bolano un’innocenza violata dietro uno wargame? Una cosa in sé sotto le parole?  Ho questo sospetto. Forse perché seguo ancora le tracce lasciate da Dick.

Vincenzo